mercoledì 29 dicembre 2010

Incubi d'un impiegato di banca


“Fissando un neon agonizzante oltre la vetrata, emetto un sordo colpo di tosse e ingoio inquietudine. Respiro l'aria mefitica del suo spoglio ufficio. Siedo scomodamente sulla sua stupida sedia minimale, e quando i miei occhi incontrano la grigia scrivania schifosamente formale dietro la quale siede, lo stomaco mi si contorce. Vorrei dirgliene di cose che solo Dio sa, ma farlo sarebbe controproducente per la mia ulcera. L'opprimente frastuono del pendolo dell'orologio che torreggia alle mie spalle m'impone di allontanare ogni remora.
Mentre i sette minuti della sua sigaretta corrono verso l'evanescenza, mi fissa con l'aria sprezzante di chi è sicuro di ottenere l'unica risposta plausibile. Mi chino e apro la valigetta, e mentre lo faccio penso alle mie mani, che non hanno alcuna pietà di me e non collaborano: tremano. Così come la crescente irregolarità della respirazione fa di tutto per ostacolarmi. Percepisco la stanza ogni secondo più stretta; la vetrata divenire molle e avvolgermi come una pellicola; le tende granata chiudersi e aprirsi simulando un frenetico battito cardiaco. Sconvolto e trafelato, afferro la pistola e gliela punto. Tutto in un attimo; lo stesso che ogni muscolo, ogni solco, ogni singolo millimetro quadrato della sua faccia impiegano a contrarsi. Ora è così teso che non gli cade nemmeno la sigaretta; così rigido che potrei già considerarlo in rigor mortis. Non fiata.
Sono sempre stato un mezzo codardo, e temo che la volontà m'abbandoni proprio ora. Invece no, sembra proprio che stavolta non ne abbia intenzione. Regge. E io non so se benedirla o maledirmi.
Lui, vedendomi indugiare, tenta un patetico scatto verso la porta. Un riflesso incondizionato attiva il mio indice destro, che si muove impercettibilmente all'indietro, incontrando il gelo del grilletto. Riesco solo a bucare il muro ma lui cade a terra, stordito: i suoi occhi sembrano sul punto di fuoriuscire dalle orbite e la sua voce querula mi infastidisce. Mi avvicino a quel resto umano che già farfuglia un linguaggio d'oltretomba e gli punto la pistola addosso, per la seconda volta. E sparo".

Un incubo. Un altro maledetto incubo. Il quarto in quattro notti, per la precisione. Alessandro si alza stordito dal letto; mentre si dirige verso la cucina in cerca d’un bicchiere d’acqua da trangugiare, inciampa tra le pieghe insidiose del tappeto in corridoio. La sua compagna dorme profondamente. Beve, espira a fondo, prende carta e penna e si siede. Come gli ha consigliato un collega a cui piace improvvisarsi psicologo, scrive quanti più particolari ricorda dell'angosciante pièce onirica appena terminata. Poi si veste lentamente ed esce.

Tra un paio d'ore arriverà nel suo spoglio ufficio, si siederà dietro la solita scrivania grigia, schifosamente formale, e guarderà l'ennesimo cliente insolvente sedersi sulla sua scomoda sedia minimale. Infine, quando questo avrà terminato il travaglio di esplicitare l'impossibilità d'estinguere il proprio mutuo e, avvilito, se ne sarà andato, si chiuderà in bagno per disperdere l’inquietudine tra le volute di fumo d'una sigaretta.

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