giovedì 10 novembre 2011

Franz o dell'invidia


7 dicembre 1764


Caro Hans,
queste righe giungono a te dopo un lungo attendere, ne sono cosciente. Pur sapendoti in apprensione per le mie vicissitudini non ti ho ragguagliato. Ti prego tuttavia di riporre ogni risentimento per il tempo necessario alla lettura di questa mia, poiché sono persuaso di poter infine trovare riparo sotto la vasta ala della tua comprensione. Come quella volta a Vienna, dove, disperato per la vuotezza e la sterilità delle mie idee, mi accingevo collerico a deludere anche l’ultimo committente che avesse riposto fiducia nelle mie capacità compositive; allora, pazientemente, ti sedesti al clavicembalo e componesti per me. Ricordo, nemmeno te ne ringraziai. Ebbene, è ora a te, fratello mio, che confido quanto segue senza più remore e affido le ceneri di quel fuoco che dentro mi ardeva. E che mi ha devastato.

Da bambino la mia predisposizione alle arti era più che una certezza. Scrivevo, disegnavo o suonavo seguendo null’altro che i sentieri della mia inventiva, tanto che, come ricorderai, il nostro tutore dovette spesso armarsi di santa pazienza. Poi, crescendo, alcune esperienze negative e un carattere dissoluto, eccessivamente esposto alle nefaste influenze altrui, edulcorarono la mia ispirazione, rendendola per sempre incompiuta; la morte dei nostri genitori e la nostra prolungata separazione, per la quale sofrii oltremodo, seminarono in fondo al mio animo un irritante disincanto. Ci perdemmo per lungo tempo. Finché una sera, a Venezia, ti ritrovai in teatro a dirigere una tua opera; scordai presto la compagnia con la quale ero, tanto ne fui rapito. Ogni nota, ogni frase, sentivo arrivarli direttamente dai nostri studi insieme, dai nostri duetti. Contemporaneamente prendevo atto della tua notevole maturazione. E della mia stasi. Puntuale come un teorema arrivò l’invidia, maledetta e proporzionale alla mia mediocrità. Fu a causa sua se quella sera me ne andai senza nemmeno provare a cercarti; quando fui solo piansi tutte le lacrime che avevo. Di ciò non ti dissi mai nulla. Per mesi me ne stetti alla Serenissima, chiuso in un'umida stanza un piano sopra il Canal Grande, passando le ore a tentare di porre la mente al centro tra i sentimenti laceranti che mi attraversavano e il violino che tenevo tra le mani. Ma dallo strumento non uscì nulla che valesse davvero ciò che provavo! Nulla che squarciasse quell’atarassia della mia volontà. E nulla che si potesse accostare ai tuoi lavori. Oh Hans! Non vi è cosa più terribile per un artista che vedere la vita per quella che è!

Anni dopo, accettai l’invito di alcuni amici inglesi di trasferirmi a Brighton; lo feci soprattutto per affrontare il viaggio assai difficoltoso del quale avevo sentito parlare, convinto che ciò potesse smuovere finalmente la palude nella quale poltriva la mia poiesi. Vidi paesaggi desolati e case di contadini in rovina un po’ovunque, soprattutto in Francia, i borghi della quale erano intrisi di miseria causata da sette lunghi anni di guerra conclusisi da appena uno. Ciò mi toccò molto, con mia somma felicità, e sentii risvegliarsi qualcosa in me, come un desiderio di esternare il più fedelmente possibile ciò che quei luoghi mi raccontavano con tale confidenza. Fu così che un pomeriggio, mentre sostavamo nei pressi di Digione, conobbi un pittore, Jean, col quale parlai per ore di disegno e tecniche varie, finché non mi chiese di compiere uno schizzo del paesaggio antistante. Accettai senza pormi internamente alcuna ambizione, e finito che ebbi glielo porsi; mirandolo entusiasta, mi chiese se facessi il paesaggista di professione. Non mi sembrò vero Hans! Quelle parole smossero la mia volontà con la forza di mille conferme, che quell’uomo incrementò ulteriormente domandandomi se avessi avuto piacere di rimanere qualche tempo suo ospite per aiutarlo con le molte commissioni che aveva. Inutile scriverti, fratello mio, che accettai d’istinto, senza badare che in quel modo stavo usando una grave scortesia ai miei amici inglesi, che tanto s’erano preoccupati per la mia salute. Quello che desideravo era esprimermi artisticamente, in ogni modo possibile, trovare basi solide per iniziare una dialettica con l’esterno, e le arti figurative facevano sicuramente parte delle migliori capacità a mia disposizione. Grazie ad esse avevo colpito Jean, e la sua professionalità ratificava in me ogni bella speranza. Quella sera stessa, dalla finestre di casa del pittore, guardai partire la carrozza dei miei amici alla volta del porto di Le Havre, senza alcun rimpianto. A Digione trascorsi alcune settimane davvero tranquille e in pacifico dialogo con la natura. A dir la verità di tanto in tanto percepivo una certa diffidenza nei miei confronti, ma pensai che fosse a causa del mio francese parlato, dal quale inevitabilmente emergeva l’accento tedesco; ma poco male, poiché passavo tutto il giorno con Jean a disegnare o dipingere paesaggi, vegetazione e stralci di vita quotidiana degli autoctoni. Dopo circa un paio di mesi e diversi lavori trovai il mio primo acquirente, un facoltoso commerciante parigino a Digione per lavoro. Sembrava appassionato di paesaggistica e rimase incuriosito dal mio “approccio antiaccademico”. Grazie a lui iniziai a racimolare qualche soldo e la mia posizione sembrò stabilizzarsi, mitigando il senso di colpa che provavo nei confronti di Jean, sul quale gravavo per buona parte delle spese. Finché una mattina non mi recai nella sua bottega. Lui non c’era e, mentre lo aspettavo, fui attratto da un dipinto quasi del tutto terminato, dalla felicissima scelta cromatica. Mi avvicinai, e rimasi senza fiato. Il soggetto ero lo stesso scelto precedentemente da me per un inchiostro su commissione: un cane dormiente tra la vegetazione. Il verde rigoglioso e brillante dei realistici fili d’erba, la profondità d’espressione della piccola zampetta del cane e un miriade di altri particolari, messi in risalto da una luce solare stupendamente concepita, sprofondarono nell’inutilità la mia interpretazione di quel soggetto. Improvvisamente la fiducia instabile che riponevo nelle mie capacità, urtò violentemente il suolo, frantumandosi. Restai alcuni istanti ancora davanti all’opera di Jean, attorno alla quale percepivo già un’aura d’intoccabilità. Ma, più di tutto, non riuscivo a darmi pace per la facoltà che avevo di riconoscere quei valori che sentivo così vivi nella mia concezione di raffigurazione in un’opera che, di mio, aveva solamente il soggetto. Come se un altro avesse reso meglio di me le sensazioni giacenti nel mio profondo, alle quali credevo di poter esser l'unico ad accedere. Mi sentii derubato e, di nuovo, invidioso. Se avessi saputo usare i colori in quella maniera, quell'opera l'avrei concepita nello stesso, identico modo. Mio caro Hans, ricaddi nello sgomento; nessuno dei miei lavori da allora in poi riusciva più ad appagarmi. Anche se non mancavano i consensi, sentivo smarrito quello più importante: il mio. Quindi m’intestardii e presi scioccamente a copiare lo stile di Jean, col risultato di perdere poco a poco ogni commissione. Contemporaneamente cercai di dissimulare, di prender tempo, in attesa d’una ispirazione che potesse riportarmi a galla. Ma triste era la zavorra che di giorno in giorno legavo ai miei piedi; il bianco del cartoncino, da intimo e anelato universo da riempire, diveniva odioso, indesiderato. Un’umiliante sfida perduta dal principio. Per di più iniziavo a percepire i pensieri e le esternazioni di coloro che avevo intorno come ostili e denigratorie; tutti divenivano ogni giorno più sfrontati e irrispettosi. Sicché un pomeriggio, mentre inquieto mi trovavo nello studio alle prese con l’ennesima correzione a un Paesaggio al tramonto, Jean mi si fece dappresso, consigliandomi pacatamente di cambiare angolazione al disegno. Quindi, di rifarlo completamente. Ricordo le sue parole, Hans. Riecheggiarono nella mia testa per notti e notti. Esse bastarono a far esplodere il vulcano di frustrazioni pressate in me; in uno scatto irrefrenabile d’ira distrussi a mani nude tutte le sue tele, finite o in lavorazione che fossero, e mentre lo facevo leggevo con soddisfazione lo sgomento nel cuore del pittore, che pure provava a fermarmi, e l’incredulità nei suoi occhi. Dopo un’azione tanto scellerata non mi rimaneva che raccogliere le mie poche cose e togliere il disturbo. Uscii da quella casa piena di sogni spezzati, lacerati, irrimediabilmente compromessi, come se uscissi da me stesso, lasciando a Jean, con la testa tra le mani, tutto il peso di quel silenzio.

Passai la notte al freddo gelido di fine Gennaio, camminando ininterrottamente verso est, con le tenebre alle spalle e le rovine dell’ennesima disfatta innanzi. Solo, in quei campi silenti avrei voluto piangere, avere un violino o un clavicembalo per comporre tenendomi stretto al tuo ricordo, fratello mio. Ritrovata una parvenza di lucidità, spesi quel poco che avevo racimolato per arrivare a Innsbruck, dai nostri zii, le uniche persone al mondo che avrebbero accettato di avermi come ospite. Nella loro casa ebbi modo di ricomporre i pezzi d’una fantasia esanime, attingendo direttamente alla fonte della serenità domestica che nostro zio Josef amava mantenere inalterata, a volte non senza un filo d’ipocrisia. Sia lui che la zia furono molto premurosi nei miei confronti, ma spesso alla loro presenza preferivo lunghe passeggiate solitarie, nella misura in cui il clima me lo permetteva. Quasi involontariamente, alla mattina, presi ad annotare riflessioni e brevi racconti per lo più autobiografici, per rileggerli e ampliarli la sera, immerso nella luce effimera del crepuscolo. In più d’uno di tali scritti compariva la tua figura, Hans, come quella d’un gigante inarrivabile e tuttavia umile; come colui che, dopo aver scritto la più toccante e meravigliosa delle sinfonie, non prova nemmeno per un minuto la tentazione di rivelarlo a chicchessia. Ma non ebbi il tempo di adattare le membra a tale benefica routine che, a causa dei commerci dello zio, dovemmo muoverci negli Stati Pontifici e infine a Roma. Arrivammo nei pressi di quest’ultima una mattina assolata di metà febbraio, e il verde cinabro dei prati mi riempì lo spirito di serenità. Entrammo da Porta del Popolo e prendemmo alloggio nei dintorni del Corso, dietro al Palazzo di Montecitorio. Fu lì che, durante l’estrazione dei numeri d’una lotteria pubblica, incontrai Germaine. Ero seduto su un gradino, in disparte, e rileggevo una breve storia ancora incompleta scritta durante il viaggio; si avvicinò fissandomi e senza proferire parola, con un sorriso che si perdeva tra le gote carnose. La salutai e, in italiano, le chiesi se potevo esserle utile. Lei, con movenze dalle quali indovinai subito una sensibilità peculiare, si sedette di fianco a me, a debita distanza, e mi chiese cosa stessi leggendo con tanta concentrazione; le passai allora i fogli che avevo in mano, convinto che non parlasse il tedesco. Ma al contrario lesse tutto, e anche in modo abbastanza veloce. Aggiunse d’essere svizzera d’origine e di dilettarsi anche lei nella scrittura. Inutile nasconderti, fratello mio, la sua singolare bellezza. Parlammo dei nostri rispettivi scritti, dei temi prediletti, e non ricordo quanto tempo trascorse poiché mi sentivo così preso da quella conversazione che scordai, una volta tanto, di notarlo. Infine, dimenticando di non averlo ancora fatto, mi presentai. Prima d’andar via, Germaine mi confidò d’esser curiosa di conoscere l’epilogo della mia breve storia. Per una buona settimana non la rividi, pur cercandola in quei dintorni e tornando talvolta nel luogo del nostro incontro, ma in compenso sentivo con gioia la mia fantasia stimolata dalla città e dal suo clima; passeggiare tra i ruderi coperti dalla vegetazione e incontrare qui così tanti artisti, rappresentava per la mia immaginazione uno sprone senza precedenti, che sfruttai per i miei racconti. Una sera di carnevale mi trovai al Corso nel bel mezzo della festa dei moccoletti, una bizzarra tradizione romana: si passeggia mascherati tenendo in mano una candela accesa (il moccoletto) che bisogna prestare attenzione a non farsi smorzare; se ciò accade si deve pagar pegno mostrando il volto.


Ippolito Caffi - I moccoletti al Corso

Poiché ognuno sembrava trovare infinito diletto nell’inventar stratagemmi per spegnere i moccoletti altrui, decisi di prestarmi anch’io. Indossai una bautta e mi aggirai per i vicoli, dove le urla e le risa echeggiavano tra le abitazioni. Quasi seguendo un percorso scelto da una recondita volontà, mi ritrovai sovrappensiero nei pressi di Palazzo Montecitorio, quando improvvisamente qualcuno soffiò e spense il mio moccoletto, sussurrando poi: “Herr, dovete mostrami il viso ora… anche se non ce ne sarebbe bisogno!”. Sorridendo tolsi la maschera, e un’incantevole Germaine fece altrettanto. Da allora iniziò tra noi un intenso scambio artistico, in cui ognuno concepiva racconti, storielle e, nel caso di Germaine, poesie, che a sera, a lume di candela, ci leggevamo. Germaine prediligeva storie di passioni finite, di qualsiasi natura esse fossero, purché vissute in prima persona e intensamente. Ciò che scrivevo le piaceva molto, me lo esprimeva, lo palesavano i suoi occhi, e simili risultati stuzzicavano la mia inventiva, sempre bisognosa d’un buon motivo. Ma la caricavano anche d’aspettative talora soffocanti. Aspettavo comunque i nostri appuntamenti serali con impazienza, prendendo posto in anticipo ai tavoli della piccola locanda nella quale alloggiava. Quando il freddo si faceva meno pungente, mi mostrava le vestigia dell’antico Impero facendomi da guida, e rimanevo colpito sì da ciò ch’ella descriveva, ma altrettanto dal suo trasporto nell’illustrare: priva della sua descrizione, Roma non mi avrebbe riempito l’anima in modo così completo. Dopo qualche tempo, però, vivere in un coacervo di realtà artistiche di tale intensità iniziò ad alterare la mia immaginazione; un senso d’inadeguatezza a rispondere in maniera consona a tali sollecitazioni mi colse, e di ciò risentivano ogni giorno di più i miei scritti. Potevo io essere davvero all’altezza di quella stupenda scenografia? Oh! Lo era senza dubbio Germaine, pensavo, specie in relazione alla conoscenza che di quei luoghi aveva, e che nei suoi scritti traspariva, e soprattutto alla sua smisurata curiosità. Ebbene Hans, capivo tutto questo, valutavo, riflettevo. E una volta di più la mia subdola natura mi portava a riconoscere il talento nelle altre persone e, contemporaneamente, a desiderare insensatamente d’eguagliarlo, essendo però privo dei mezzi sufficienti per poterlo fare. La disfatta definitiva come artista, come colui che non era riuscito a creare sogni per gli altri ma solo una grande illusione per se stesso, si delineava in me con la forza d’una verità assoluta. Per non dover leggere negli occhi di Germaine una più che sicura delusione riguardo i miei ultimi racconti, presi a eludere i nostri appuntamenti in attesa d’un ritorno di idee, che inizialmente non volli forzare. Ogni ora, però, seguitava a rivelarsi impietosamente sterile così come quella precedente, mentre il gelo s’annetteva ampi territori della mia immaginazione. Un giorno, dalla finestra del mio alloggio, vidi Germaine giù nella via: mi chiamava. Qualcosa in me allora accadde, come una scintilla nell’animo, l’esito della quale sentivo però vincolato a un paio d’istintivi interrogativi: cosa la spingeva lì? Le mancavano forse i miei scritti? Scioccamente pensai che ciò avrebbe potuto salvarmi, che solamente tale motivazione in Germaine avrebbe potuto ridestarmi da quel torpore mentale. Con questa speranza negl’occhi scesi da lei in fretta e quando le fui davanti mi abbracciò, e disse:
«Sono qui per salutarti, sono diretta a Parigi. Un editore ha mostrato interesse per delle mie vecchie poesie e… sono contenta di averti trovato, avevo un gran desiderio di comunicartelo, immaginavo che ti avrebbe fatto piacere…».
Distolsi gli occhi dai suoi, abbassandoli, mentre lei seguitava a parlarmi raggiante in viso. Cercai di imprimermi un’espressione di circostanza, le strinsi e le baciai la mano, le augurai ogni bene e, forzando i tempi, mi accomiatai. Nei giorni che seguirono mi sentii così infelice e vinto da una profonda delusione: quella che provavo a causa della mia irriducibile incapacità di trarre da ogni utile circostanza null’altro che un’insulsa competizione. Ho sempre vissuto tutto così, non solo l’arte, lo sai bene anche tu, Hans.

Fu così che il gelo, infine, mi vinse. Senza avvertire o salutare nessuno scesi in strada e iniziai a seguire le mie gambe, nient’altro che esse, anelando fuori ciò che avevo dentro: silenzio. Lungo la via incontrai un ragazzo diretto a sud, verso una Certosa, disse. La mia presenza non lo infastidiva e ciò mi bastò, così dividemmo il cammino. Giorni dopo, arrivammo presso un grande portone in legno: bussammo e un monaco ci aprì.

Qui si prega, agendo lentamente negli angusti spazi. Spesso in solitudine. È quello che desidero. Caro Hans, è qui che vivo ora, senza più nulla dovere al tempo. Da una minuscola finestra volgo lo sguardo ai monti irradiati di luce. E finalmente sorrido.



Franz



2 commenti:

  1. ti mando la poesia di mia figlia mathilda... innocenti versi di una dodicenne sulla serenità.
    Primavera
    i prati si colorano
    di fiori che respirano
    mossi da una brezza primaverile
    e io giù nel cortile
    ammiro i colori che mischiandosi
    al mio sguardo sorridono
    antonella

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  2. Che bella! Complimenti Mathilda (e Antonella)! Sai che c'è? Ora faccio un post a parte!

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