martedì 22 giugno 2010

L'istante: unità di misura dell'esistenza


"Non c'è altro che un istante. E noi, in realtà, ci siamo sempre dentro", dice uno dei personaggi incontrati dall'onironauta nel film Waking life (2001, regia di Richard Linklater). Come contraddirlo? Per comprendere meglio il concetto di istante all'interno di un'esistenza basta prendere una foto. Cos'è infatti questa se non la cattura di un infinitesimale segmento di vita? Un frangente irreversibile, irripetibile e casuale. In effetti, guardarsi in una vecchia foto è un po' come trovarsi di fronte all'immagine di un morto; nel senso che si contempla una persona che non c'è più, che non sarà mai più nel modo in cui è stata immortalata. Una foto ha il vincolo di richiamare soltanto il passato, eternizzando però un preciso presente. Al suo interno si cristallizzano delle circostanze che, anche se inanimate, non sono più soggette all'evoluzione che impone lo scorrere del tempo.
In un certo senso, l'attimo potrebbe dirsi l'unità di misura dell'esistenza. Un'unità che è impossibile calcolare aritmeticamente se non attraverso l'attribuzione di valori e convenzioni. Alla sua rappresentazione si è ispirato l'Impressionismo (e Giorgione tre secoli prima), la corrente pittorica forse più nota e apprezzata, gli esponenti della quale colsero presto l'importanza e le implicazioni storiche e filosofiche della fotografia (allora da poco inventata) riprendendo il concetto di raffigurazione dell'attimo e trasponendolo, con tecniche per quel tempo innovative, su tela. Monet arrivò a dipingere anche più di due tele insieme in una precisa fase del giorno, per non perdere l'effetto che una determinata gradazione di luce distribuiva sul paesaggio.

In generale, ogni essere vivente ha a disposizione un numero indeterminato e consecutivo d'istanti in uno spazio sondabile finito, ancorché vastissimo, e una coscienza in un corpo che si deteriora. Tutto è soltanto presente, perché solo questo è in tempo reale. La proiezione del futuro è plasmata dalle speranze, il numero delle quali decresce secondo il susseguirsi degl'istanti che compongono l'esistenza.

giovedì 17 giugno 2010

Sulla decadenza


La condizione che precede la fine di un ciclo, all'interno della quale tutto sembra essere permesso. Crocevia di un numero imprecisato di correnti interne, quasi tutte più o meno deleterie: nostalgia di un passato idealizzato, scarsissima percezione della moralità, progressiva perdita dei freni inibitori, corruzione dilagante, mancanza di stimoli, irrequieta attesa di qualcosa che non si ha la volontà sufficiente di creare o raggiungere. Scenario in cui ci si agita in uno stagnante e reiterato presente con un atteggiamento marcatamente fatalista e una coscienza nichilista: un cullarsi sicuri nell'insicurezza generale. È la decadenza.
Ed è interessante osservare gli esseri umani vagare all'interno delle sue spirali. Paradossalmente ridono di più.

La Venezia di fine '700 è uno degli esempi dell'accezione di decadenza che m'affascina; "L'Italia del Settecento", uno dei libri della collana della Storia d'Italia di Montanelli (e Gervaso in questo caso), ne dà un'idea spassosa nel capitolo "Venezia. Fasto e feste":

Quanto più stringeva i freni del suo controllo politico, tanto più questo regime poliziesco li allentava in fatto di costumi. Il fenomeno è tipico degli autoritarismi che nascono nel puritanesimo e muoiono nella dissolutezza, e del resto ha la sua logica: i piaceri compensano l'oppressione e contribuiscono a sopportarla.

Svuotata di tutta la sua potenza marittima commerciale e militare, la Serenissima, alla fine del secolo dell'Illuminismo, sapeva benissimo d'esser oramai prossima terra di conquista. In attesa degli eserciti della prima campagna d'Italia di Napoleone, che non solo la conquisterà ma  la svenderà agli Asburgo col Trattato di Campoformio (il che provocherà le ire di molti patrioti, tra i quali Foscolo, la profonda delusione del quale possiamo leggere nelle epistole di Jacopo Ortis), si proteggevano strenuamente i privilegi dell'aristocrazia del Libro d'Oro e si permetteva praticamente ogni tipo di distrazione al popolo.

In tutti i paesi d'Europa - continua "L'Italia del Settecento" - la follia del Carnevale durava pochi giorni; qui, se ne gode la stravaganza sei mesi all'anno (...) Ne avevano bisogno anche i nobili, che un ipocrita conformismo obbligava tutt'ora a una certa austerità. Essi non potevano, ad esempio, frequentare locali pubblici, né mostrarsi con donne, così come le loro signore non potevano andare in giro senz'accompagnamento di cavalier servente e valletti. Il Carnevale liberava tutto da queste pastoie. Il tabarro e la bautta parificavano ceti e sessi. Che bastassero a nascondere l'identità ne dubitiamo. Ma era regola, da tutti scrupolosamente osservata, che nessuno riconoscesse nessuno (...) Il palazzo patrizio non poteva impedire l'accesso a chiunque si presentasse mascherato (...) Sotto il coperto della bautta la monaca poteva uscire dal chiostro e la grande dama entrare in taverna. Per le autorità l'unica vera preoccupazione era il gioco. Tutti erano contaminati da questo demone, che non si scatenava solo a Carnevale (...) il più celebre casinò era il Ridotto. Il governo lo teneva in vita perché era la sua più ricca fonte d'introiti. Ma si rese conto che inghiottendo i patrimoni della nobiltà esso la indeboliva, e nel 1774 ne decretò la chiusura (...) I rimedi furono presto trovati: visto che il Ridotto era abolito, tutto si trasformò in Ridotto. Qualche donna rimasta a corto di denaro, per poter continuare a giocare e a divertirsi, si presta apertamente al piacere di chi la vuole.

Vi sono anche esempi che sfiorano il grottesco, in cui un certo tipo di decadenza ne denigra un altro. È il caso di Hitler, che nel suo Testamento  fa riferimento all'irrevocabile decadenza delle razze latine. Fa effetto detto da uno che alcune ore dopo si sarebbe suicidato. Ad ogni modo, se solo avesse sfogliato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani di Leopardi  (scritto nel 1824 e pubblicato nel 1906), avrebbe avuto un quadro più completo:

I popoli meridionali superarono tutti gli altri nella immaginazione e quindi in ogni cosa, a’ tempi antichi; e i settentrionali per la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali a’ tempi moderni. La ragione si è che a’ tempi antichi lo stato reale delle cose e delle opinioni ragionate favoriva tanto l’immaginazione quanto ai tempi moderni la sfavorisce. E però in pratica l’immaginazione de’ popoli meridionali era tanto più attiva di quella de’ settentrionali quanto è ora al contrario, perché la freddezza della realtà ha tanta più forza sulle immaginazioni e sui caratteri quanto essi sono più vivi e più caldi. E certo le nazioni settentrionali, e massime il popolo, sono molto più paragonabili e simili oggidì alle antiche che non sono le nazioni, e massime il popolo, del mezzogiorno, laddove è pur certo che dovendo sceglier tra i climi e tra i caratteri naturali dei popoli una immagine dell’antichità niuno dubiterebbe di scegliere i meridionali, e i settentrionali viceversa per immagini del moderno.

Come non citare, infine, la corrente letteraria decadentista nata nella Parigi dell'ultimo quarto del XIX sec.? Proprio mentre la borghesia positivista riedificava a sua immagine e somiglianza il pianeta, inoculandogli quelle caratteristiche oggi ipertrofiche e asfissianti, gli intellettuali Decadentisti poetavano, dipingevano e musicavano il malessere della società attraverso il loro personale.

La decadenza come evento antropologico è senza dubbio un fenomeno strutturale. Ed è affascinante constatare come trasformi totalmente l'approccio alla vita dell'essere umano più risoluto, e come pieghi i valori caratteristici di un individuo magnanimo. È uno stato di stanchezza mentale, di rigetto più che di assimilazione, su cui è impossibile fare una previsione di durata. Uno stato in cui l'individualismo arriva a livelli parossistici attraverso la reiterata visione strumentale dei rapporti interpersonali.

In conclusione, la decadenza è l'orchestrina del Titanic che suona fin quando l'acqua non la travolge. Un po' come la crisi, che molto spesso è "tutt'altro che folle, è un eccesso di lucidità". Sarà lei, prima della morte, a regalarci quell'ultima gelata sensazione proveniente dalla rivelazione della verità?

domenica 6 giugno 2010

"Conversazioni con un gargoyle": 2° posto alla XII edizione del Premio Letterario Internazionale Mondolibro


Fulmine a ciel sereno (neanche troppo)! Stamattina vado su http://www.mondolibro.net/ per vedere i risultati del concorso indetto dallo stesso sito, e mi ritrovo al secondo posto della "Sezione C: Narrativa edita". Pensate gli altri libri! Scherzo ovviamente! Ecco il link al sito coi responsi del concorso: