martedì 23 marzo 2010

Guida "breve" di Parigi, by Alessandro Zucconi (il pitone)


Voleva solo fornirmi ragguagli sintetici sulla Ville Lumière. "Ti mando tutto tramite mail, perché Facebook è soggetto allo spionaggio del marketing". Risultato: una miniguida arguta, aggiornata e spigliatamente propositiva! Così, copio e incollo sul blog: merita. Non l'ho ancora testata, ovviamente, ma è l'afflato che mi ha commosso. Ti darei il Telegatto, ma ho solo il blog! Grande Pitone!

"Avrei bisogno di 2 secoli, parigi cazzo...
Va beh. prima di tutto... cazzo non c'è un prima di tutto....
ok mettiamola così se invece di seguire le dritte che ti do io dai troppa importanza a quello che hai letto sul lonely planet ti cascano i coglioni e passi tutta una vita col turno "Roma - Inter" dal quale rifuggi.
Prima mi parlavi di St Denis, ricordati che quelle sono le periferie dove danno fuoco alle auto, ma un giro fattelo perché merita. di giorno non devi preoccuparti... neanche di notte ma magari a kasia potrebbe non piacere.
Parigi 4 Il Marais. tra la bastiglia (che potrebbe deluderti) e l'isola di S. Luigi (quella prima di notre dame) c'è il marais, significa palude, ed è il rione monti di Parigi: oggi rinomato per la presenza della comunità gay e per la concentrazione di locali di tradizione culinaria ebraica e kosher. ah c'è il museo picasso!!! La piazza più bella della zona è place des vosges: dedicata alla prima prefettura che ha pagato le tasse a napoleone (!) mentre su rue de rosiers trovi dei ristoranti ebraici molto interessanti:

-Le roi du falafel, tra le varie foto interne c'è anche quella di vari ebrei ortodossi tipo lenny kravitz...

-Il mio posto preferito di Parigi: chez marianne, cucina ebraica da tutto il mondo, mitico il piatto da 20 euro circa dove metti tutte le creme che vuoi (di tonno, di melanzane, di ceci, tzatziki) e le mangi su varie fette di pani diversi.

Sempre in zona, alle spalle della chiesa St Paul, c'è il quartiere s.paul, il più antico della città.
Parigi 5 A proposito di antico non perderti l'arena di lutezia, vicino c'è l'istituto del mondo arabo (con le finestre con diaframma foto sensibile), il jardin des plantes, il pantheon e la zona universitaria della sorbonna (coi ristorantini greci) tutti sulla Rive gauche ma prima dello scrausissimo quartiere latino... consideralo una sorta di trastevere per turistacci... anche se può essere molto divertente, poco più ad ovest all'altezza del nuovo ponte pedonale "delle arti", dietro st germain de pres et st sulpice ci sono varie creperie interessanti, piccolossime, la migliore crepe dolce è la "belle Helene" per quelle salate invece consiglio le crepe (gallettes) al grano saraceno, della tradizione bretone.

A rue de la bastille, un vicoletto, c'è le petit bofinger l'unico ristorante francese vero con un prezzo quasi normale

Al posto vostro, in un giorno di bel tempo, prenderei la bici alla bastiglia per ripercorrere tutto il canale st. martin, semplicemente meraviglioso, a tratti coperto, a tratti a cielo aperto inizio dalla senna, all'altezza della rapée, per arrivare fino alla villette, il parco supermatto che si trova a nord est di parigi: qui potresti capire quanto stanno avanti rispetto a noi in espressione artistica e d'opinione.

Proprio su questo tragitto scopri la zona di belleville, una sorta di souk doveva abitava jim morrison.

Un'altra zona da vedere è quella di port royal - montparnasse.

Se vuoi vedere una zona assurda dove abitano quelli con la puzza sotto il naso l'etoile, intorno all'arco di trionfo, lì vicino c'è il parco di monceau che spacca e ci vive la pura razza gallica.

La zona di pigalle naturalmente è quella delle mignotte e non come dicono in polonia delle castagne alla brace.

Molto bella un ex zonaccia che va da les halles al marais, a nord di via rivoli, dove c'è il centro pompidou ed altre situazioni

Evita di portare Kasia alle gallerie lafayette che se no pure te te compreresti tutto quello che vendono e non ne uscite più

I parchi, come ti dicevo sono pochi e considerati dei veri monumenti: il bois di boulogne olte a diventare luogo di lavoro per travelli, di giorno è un bosco stupendo con vari lati nascosti. dicevo parc de monceau, montsouris a sud (e una volta lì fate un salto di pochi secondi a vedere la città universitaria... giusto per rosicare), il bosco di vincennes a sud ovest, il giardino del lussemburgo, buttes chaumont.

La linea 14 della metro, senza macchinista, per metterlo in culo ai sindacati, porta dalla maddalena, molto interessante, alla biblioteca di tolbiac, dedicata a mitterand andate a vedere cosa è: una biblioteca aperta a tutti i francesi, il centro pompidou non gli bastava: tutti i libri, tutta la stampa, tutta la musica, tutto per tutti.
La linea 3 del tram , a sud ha un prato di mughetti tra i binari e congiunge varie parti interessanti tra cui la città universitaria, e porte d'italia, dove arriva l'aurelia (ora zona a preponderanza cinese).

Prendete le linea 2 e 6, sopraelevate, per vedervi un po' la città ma attenzione ai borseggiatori, queste son 2 linee che piaccono molto ai turisti.

Oltre al sacro cuore, nota tutta montmartre, considera che era un'altra città che ci sono delle vigne da cui producono ancora il vino, e che a tutt'oggi ci sono dei teatri artistici di cabaret filosofico

Guardate bene la sequenza delle fontane del trocaderò, solitamente cambiano ritmo e frequenza.

Senti più di così non riesco a scrivere e scusa il modo confuso con cui ti ho elencato queste cose. a maggior ragione segui con attenzione tutte le parole perché non son riuscito ad evidenziare le singole cose.

Cazzo quanto vorrei farvela vedere io stesso parigi... va beh ne parliamo quando tornate, fatemi vedere le foto così mi commuovo..."

sabato 20 marzo 2010

La (mia) superficialità


Se c'è una guerra che vale la pena di intraprendere, l'unica che non necessiti di cifre esorbitanti, è quella contro una parte di noi. Fosse anche per il resto della permanenza sulla Terra. Quella parte che sempre ci ha creato problemi.
Una guerra bifase: individuazione e tentativo di cura.

Individuazione: questo leviatano interiore è più ambiguo della tuta disindividuante di Philip Dick. Bisogna mettere realmente le mani nella (propria) merda per discernere vizi, carenze, difetti, lacune minori e provvisorie, da quelle più radicate. E puntarne uno/a, possibilmente quella/o più atavica/o e puzzolente. Credo di aver fatto questo tipo di lavoro, riuscendo a pescare il prodotto della mia mente per il quale provo un indomito ribrezzo: la superficialità. Ho imparato a riconoscerne le pulsioni deleterie attraverso alcune sue peculiarità, che cerco di eliminare con dei Qassam: pregiudizio, stereotipo e accettazione. Ogni volta che cammino e metto il piede su una di queste tre mine maledette mi sento saltare in mille pezzi, proprio come capitò a Robert Capa. E la paura di questa terribile sensazione è il solo anticorpo che la mia mente sia riuscita a creare contro una parte di sé. Come in ogni guerra, però, ci sono momenti, periodi, in cui ti sembra di regredire. E altri in cui regredisci realmente. Allora devi mettere di nuovo le mani nella (tua) merda e vedere fino a che punto sei tornato indietro. Pulire, e da lì ricominciare.

Tentare la cura. Per quanto mi riguarda, il solo antidoto che a tastoni nell'oscurità sono riuscito ad afferrare è sviluppare la curiosità, la voglia di approfondire in ogni direzione possibile e senza forzature. Sono fortunato in questo, poiché credo di aver imparato ad alimentare il mio interesse nelle cose: a volte vorrei creare così tanto da finire a pensare che l'arco di una giornata non valga nemmeno come antipasto. Ciò mi riesce in modo molto più efficace quando sono solo; ho moltissime difficoltà a tener domo quel mio odiato generalizzare quando sono in mezzo agli altri. Di questi, ho notato, colgo subito il grado di superficialità e, se elevato, invece di dar subito battaglia, addiziono la mia alla loro. Regredendo inesorabilmente.

Ad ogni modo, ho avuto la mia personale Austerlitz nel comprendere che la vera cura, se c'è, è imparare. Con modestia. Necessariamente sbagliando. E da qui creare. Do ut des. Immagazzinare, personalizzare e riproporre.
Per allontanare il puzzo vomitevole di questa cazzo di superficialità.

mercoledì 10 marzo 2010

Perdersi e ritornare, utilità ispirative




"Nelle nostre passeggiate più banali, stiamo sempre virando, seppur inconsciamente, come piloti diretti da certi fari e da certi promontori (...) Dovremmo guardare più spesso oltre la ringhiera di poppa della nostra nave, come passeggeri curiosi, e non fare il viaggio come stupidi marinai, intenti a preparare la stoppa" (H.D.Thoreau, Walden).

In questa parte di mondo è praticamente impossibile perdersi; non agli occhi degli altri, ma a beneficio di se stessi. Ogni tragitto che faccio è programmato. Non mi sono mai perso davvero in un posto, per questo sono convinto di aver fatto sempre a meno di qualcosa.

Perdere la cognizione del luogo in cui ci si trova e in abbinamento, possibilmente, del tempo. E farlo senza provare inquietudine; ma come trattenersi dal chiedere aiuto a qualcuno? Ricorda molto quel bambino alle sue prime timide esperienze in piscina: se ne resta incollato al bordo. Tolte quelle volte in cui lo si fa per necessità, perché quando ci si sposta sembra sempre logico avere una destinazione?

Le antiche popolazioni nomadi non si riconoscevano in una sola terra, ma nella totalità di essa; si spostavano solitamente per motivi economici, o di tradizione. La loro conoscenza era superiore a livello pratico rispetto a quella di un qualsiasi popolo stanziale, così come la loro capacità di adattamento, soprattutto climatico. Nomade viene dal greco nèmo (o nèmos), che significa "io pascolo"; in tal senso il concetto di perdersi per loro era abbastanza relativo. Al contrario, la nostra plurisecolare cultura stanziale ci fornisce un banco di prova ideale per sentire pienamente quella destabilizzazione del trovarsi in un luogo estraneo alle proprie abitudini visive. Destabilizzazione, se possibile, nella sua più utile accezione: come shock e graduale visione di nuove potenzialità e stimoli che scaturiscono dal cambiamento di contesto.

Come se giocassimo a provocarci: negando al cervello ogni riferimento topografico (contestualmente a tutte quelle immagini associative di cui necessita) e domandone via via ogni vertigine conseguente, lo si induce ad abbandonare le inutili inibizioni e le alienanti certezze legate all'ambiente precedentemente memorizzato. E a concedersi quindi nuove ispirazioni. Decontestualizzarsi. Un po' come faceva Magritte con gli oggetti, per far acquisire loro tutt'altro senso; un senso inaspettato, sorprendente. Per non avere un'idea prevedibile, standardizzata, o peggio limitata di ciò che la nostra esistenza può partorire.

Il ritorno, però, è una componente imprescindibile del gioco: è nel luogo (non necessariamente reale) che identifichiamo come intriso della nostra essenza che le esperienze si preparano a essere assimilate dall'anima, assumendo valore permanente. Solo dopo potranno contribuire direttamente al processo di elaborazione creativa o poiesi.

Perciò, perdersi, per un artista, è intraprendere un viaggio stimolante, ingannando, tenendoli bene aperti, i propri occhi. Per poi ritornare con il prezioso carico di impressioni e fantasie a casa. Qualsiasi cosa per essa s'intenda.