martedì 29 dicembre 2009

La decima vittima


Non conoscevo questo film del 1965; devo ringraziare un amico: dziękuję Alessandro. Ho letto che la trama, molto particolare, riprende un racconto di Robert Sheckley, "La Settima Vittima".
In un futuro non meglio specificato viene istituita una sorta di caccia permanente a carattere mondiale per gente affetta da rigurgiti di violenza, un modo eccentrico per dar sfogo agli isitinti omicidi che alcuni uomini provano, per vari motivi, nei confronti di esponenti della sua specie. La trovata sta nel fatto che è tutto assolutamente autorizzato dagli organismi statali, tanto che vi sono enti come il "Ministero per la Grande Caccia" che, tra le altre cose, gestisce i tesseramenti. Ogni iscritto deve sottostare a pochi ma categorici regolamenti, cito il film:
1) Bisogna impegnarsi a compiere 10 cacce, 5 da cacciatore e 5 da vittima, alternativamente. Accoppiati di volta in volta dal selezionatore elettronico di Ginevra.
2) Il cacciatore sa tutto della sua vittima: nome, indirizzo, abitudini.
3) La vittima non sa chi è il suo cacciatore, deve individuarlo e sopprimerlo.
4) Il vincitore di ogni singola caccia ha diritto ad un premio. Colui il quale raggiungerà vivo il traguardo delle 10 cacce, sarà proclamato Decathon e riceverà onori e 1 milione di dollari.
Guai ad uccidere per errore un non-tesserato: si dovrebbe rispondere di omicidio volontario. Il principio di questo "gioco" è semplice: attraverso la legalizzazione e la regolamentazione della violenza viene data l'opportunità di risolvere questioni personali e, perché no, mondiali, solo e soltanto all'interno della Grande Caccia. Il fine supremo è quello di evitare ogni tipo di guerre; tant'è che, a tal proposito, un tizio nel film dice che se Hitler avesse partecipato alla Grande Caccia si sarebbe evitata la seconda disastrosa guerra mondiale!
Il mio scopo, però, non è quello di illustrare interamente la trama, basta solo questo antefatto.
Ciò che più colpisce del film è la capacità di vaticinare, già dal '65, il tempo che viviamo adesso: la spettacolarizzazione della morte (o dei guai personali), l'egemonia degli sponsor, la pubblicità e gl'indici di gradimento, il ruolo primario e deleterio della televisione, perfino i reality! Ma non solo; anche il disgregamento della famiglia e l'emancipazione della figura femminile. Non a caso lavorarono alla sceneggiatura intellettuali e filosofi come Flaiano, Petri (che ne è anche il regista), e Tonino Guerra.

L'eco del boom economico, che accompagnò l'Italia dagli ultimi anni '50 ai primi anni '60, si sente tutto in questa pellicola; sia negli aspetti intrinsecamente positivi, che nelle eterne controindicazioni. La guerra del Vietnam era in pieno corso, con tutte lo sciame di contestazioni che sfoceranno nel '68; da pochi anni era finita anche la disastrosa, per la Francia, guerra d'Algeria, concausa nel '58 della caduta della Quarta Repubblica transalpina. Tuttavia il nostro paese dava l'idea di essere un'isola felice: cresceva il potere d'acquisto delle famiglie, gli elettodomestici facevano il loro ingresso nelle case dei ceti medio-bassi, alimentando una ventata di fiducia nel commercio e nelle vie che apriva agli individui.
Gli sceneggiatori sembrano irridere anche la legge Merlin da poco promulgata (1958) che chiudeva le Case di tolleranza, facendo entrare il protagonista Poletti (un ossigenato Mastroianni, efficacemente enigmatico) in una "Casa di Relax", o giù di lì, per riflettere in pace sulle prossime mosse senza esser pedinato dal suo assassino. Evidentemente Petri ipotizzava una (sensata?) riapertura delle case chiuse in un futuro quasi prossimo: forse l'unica previsione errata, ma per eccesso di ottimismo.
Di previsione azzeccatissima si può invece parlare a proposito della lettura del futuro ruolo della donna. Nel '65, in Italia, la donna svolgeva ancora pressoché il ruolo di casalinga/madre; tuttavia, l'emancipazione femminile dopo l'uscita del famoso libro di Betty Friedan, "Mistica della femminilità" (Usa, 1963), in cui l'autrice rivendica l'uguaglianza professionale, culturale e politica della donna rispetto all'uomo, era divenuta più che una percezione. Forse per questo, nel film, la protagonista Caroline (Ursula Andress) - che come la Friedan è americana - veste i panni della sensuale assassina.
In realtà non dovrei stupirmi tanto, perché già allora l'embrione di quello che siamo oggi era ben visibile alle intelligenze fini. Era l'inizio di un ciclo; per questo, probabilmente, veniva più facile azzardare ipotesi sul paesaggio futuro. Mi chiedo: siamo oggi alla fine di quel ciclo? O a una sua evoluzione così accelerata da far dubitare che sia lo stesso? Purtroppo non abbiamo più quelle menti a lavoro per poterlo sapere.

P.s. Giudizio personale: il finale non è degno del film. Ho letto che vi furono problemi tra Petri e Carlo Ponti, il produttore; quest'ultimo impose un finale "leggero". Rovinando fortunatamente solo quello, non tutto il film.

lunedì 21 dicembre 2009

Se il sonno della ragione genera mostri, l'insonnia della ragione genera elucubrazioni (Fun cool low al mercoledi notte)


È l'anima a prendere le sembianze del corpo? Oppure il contrario? Voglio dire... quando pensiamo alla nostra parte eterea ce la immaginiamo con l'aspetto più armonioso, più affusolato, benché inconsistente, della nostra fisicità? Altezza, corporatura, tratti somatici ecc...
O è il nostro corpo che cerca di rendere "logica rappresentazione" la metafisicità di quell'impercettibile parte di sé che lo eleva? Dopo Darwin non posso propendere per quest'ultima ipotesi, visto che le sue teorie dell'evoluzione hanno dimostrato come ogni organismo vivente modifichi le proprie caratteristiche fisiche nel tempo, secondo le condizioni ambientali, climatiche ecc...
Del resto, anche la prima tesi è una conseguenza del retaggio iconografico di "anima" in pittura, poi ripresa e ampiamente delineata in letteratura e cinematografia.

È curioso però notare come ad altre figure misteriose e (a volte) non, l'uomo abbia dato sembianze pressoché antropomorfe: la raffigurazione di un alieno è molto simile a quella di un umano geneticamente modificato; agli dei delle antiche religioni pagane furono affibbiate fattezze umane, spesso con vizi annessi; i vari monoteismi diffusi in occidente contemplano la figura di Dio come simile a quella di un uomo; i robot, da quelli dei cartoni animati a quelli reali o sperimentali, assumono la nostra sagoma o usano la nostra logistica per muoversi nello spazio.
Se Dio ha fatto l'uomo a sua immagine e somiglianza, e l'uomo a sua volta ha creato i robot simili a se stesso, vuol dire che Dio è il nonno dei Robot?
Diamo vita a cose che hanno bisogno di una filologia, e non possiamo partire da un ipotetico "punto zero" annullando noi, ciò che vediamo e conosciamo. Ci raffiguriamo in continuazione, cambiando solo ambiente, situazione, aspetto (nemmeno troppo), contesto...

Siamo narcisisti?


Abbiamo una fantasia limitata?


O una fantasia narcisista?


Un narcisismo fantasioso?


Una fantasia limitata al narcisismo?


Un narcisismo e una fantasia limitati?




Una fantasia limitata ad un narcisismo illimitato?



Non ho ancora sonno. Fun cool low al mercoledi notte.

giovedì 17 dicembre 2009

L'enigma della città bianca


Da cosa proviene quel senso d'appartenenza che proviamo nei confronti della nostra città?

Amo Roma. Ma la amo perché è disseminata di posti in cui ho vissuto più o meno profondamente pezzi di vita? Sicuramente, ma non solo; sarebbe riduttivo. E ne ho la prova: il quartiere che più mi sta a cuore, e che in larga parte è una concretizzazione di un segmento importante del mio carattere (quello che osservo con maggior interesse), è lo stesso per il quale non nutro alcun affetto che derivi dalla memoria, poiché non mi è mai capitato di doverlo frequentare per amicizie, amore o altre storie: l'Eur.


Potrei non sforzarmi molto per spiegarmelo, perché ho avuto la fortuna di trovare una vecchia trasmissione Rai, "Io e...", in cui c'è Fellini che monologa sulla sua predilezione per l'Eur rispetto ad altre zone cinematograficamente più ambite. Ne parla come di un palcoscenico a cielo aperto.
Il complesso, a prima vista, può comunicare un certo disagio. Perché è la realizzazione sospesa di una grandissima illusione (oggi, ma nel '35, quando l'idea di una "grande rassegna planetaria" balenò in testa al Governatore di Roma Bottai, era un bellissimo sogno): quella fascista. Ora non è tanto da considerarsi la causa, ma l'effetto che essa ha prodotto. Anche Pasolini (che proprio lì abitava, a via Eufrate) dovette riconoscere quanto città come Sabaudia, d'architettura e fondazione littoria e per questo inizialmente bistrattate da molti intellettuali (e non solo), mantengano in realtà una bellezza intrinseca proveniente sia da una modernizzazione delle costruzioni - influenzata sì dal razionalismo della Bauhuaus, ma nel pieno rispetto dei canoni della tradizione classica del nostro paese - sia dal dialogo che esse hanno con l'ambiente circostante (almeno quello precedente all'era della speculazione edilizia).
Detto questo, lungi da me il voler fare un'analisi tecnica, primo perché un tecnico non sono, secondo perché non è quella l'accezione dell'Eur che più mi attrae. Ma quella emozionale, intima.
La zona in questione è stata concepita volutamente con un'architettura maestosa, superlativa, destabilizzante attraverso l'eccessiva geometricità. Quasi pedante. Gli edifici sono rettangoli giganti, spigolosi e perfetti. Lunghissimi e bianchi. Le decine e decine di finestre in alto sono quadrati disadorni vicinissimi, numerosissimi e ritmicamente ossessivi; sotto, giganteschi porticati monumentali o colonne senza alcun capitello. E poi statue neoclassicheggianti disseminate regolarmente attorno agli edifici di maggior importanza, mosaici, altorilievi. Provate, se ancora non l'avete fatto, a entrare all'interno del Palazzo dei Congressi: vi sentirete dei lillipuziani, soverchiati dalla maestosità austera degli ambienti.
Non si sfugge, c'è un solo nome dietro questo spettacolo: Giorgio De Chirico. È a lui che si sono ispirati geni come Piacentini, Libera, Nervi ecc... ossia alcuni di coloro che l'Eur l'hanno progettato. Geniali, perché riuscire a trasporre nello spazio reale, lo spirito enigmatico e malinconico che caratterizza i quadri del Pictor Optimus non è cosa da poco. C'è un aggettivo che accomuna il tutto: metafisico. Oltre la percezione del reale filtrata dai nostri cinque sensi, per quello che riguarda la metafisica in pittura. Ora, già appare chiaro un paradosso: come si può palesare nella realtà sensoriale qualcosa che concettualmete non le appartiene, ma che dovrebbe esserne il superamento? Come si può infondere nelle persone che si muovono all'interno di questa "metafisica concretizzata" le sensazioni provocate della metafisica pura, cioè insondata e insondabile? Non è questo un paradosso? Lo è. E, per quanto mi riguarda, gironzolando (preferibilmente di sera o al tramonto) per le larghe vie dell'Eur tale ossimoro è più che una percezione. Inutile sottolineare che ho sempre avuto una passione compulsiva per De Chirico; ancor prima di iniziare a ricordare le mie prime attività oniriche ho conosciuto gli ambienti dei suoi quadri, trovandomi così a mio agio al loro interno che oggi i miei sogni assumono spesso quel tipo di scenografie. Piazze spaziose che non riesco a esplorare interamente perché ostacolato da edifici regolari, continui, monotoni fino alla paranoia; statue neoclassiche, come quelle che attorniano lo Stadio dei Marmi; ombre antropomorfe proiettate nella luce del tramonto; torri, spazio, silenzio diffuso. Persino il treno sbuffante vapore che ogni tanto compare in alcuni suoi quadri (il padre di De Chirico costruì le prime ferrovie in Grecia e ideò la stazione di Volos, città natale del pittore) ha un legame con me: da piccolo mio padre mi portava spesso alla stazione Tiburtina perché, mi disse poi, gli chiedevo in continuazione di "andare a vedere i treni".



L'EUR.
Perché?
Perché?Perché?
Perché?Perché?Perché?
Perché?Perché?Perché?Perché?
Perché?Perché?Perché?Perché?Perché??

Impulso. Percezione. Coscienza. Incoscienza.
C'è più vita nell'idea di realizzare che nell'aver realizzato. L'idea è propulsione in avanti, l'aver realizzato può soddisfare (spesso nemmeno in modo direttamente proporzionale allo sforzo compiuto). Soddisfazione è presto stasi. L'Eur è un'illusione partorita per metà, una realizzazione incompiuta poiché la guerra ha infranto il sogno di una Esposizione Universale che sarebbe stata trionfale; non è punto d'arrivo, ma interruzione brusca. Ciò ne fa l'ultimo dei gioielli romantici. Bellissmo trampolino verso il nulla. Decadenza che si protende verso il mare. E in fondo sono sempre stato attratto dalla decadenza.
Congetture sterili?
Continuo a scavare.






domenica 6 dicembre 2009

Luminosità del buio


(Yves Tanguy, Le Jardin sombre, 1928)
Dalla seconda rivoluzione industriale in poi, l'uomo ha perduto un amico fidato; uno degli ultimi, forse, che lo tenesse coi piedi per terra: il buio. La luce artificiale della lampadina elettrica conquistò sempre più i nostri avi, che la collocarono praticamente in ogni ambito. Tramutandola rapidamente in necessità. Molte persone, oggi, hanno paura del buio; prima era molto meno concepibile averne, visto il quotidiano conviverci, soprattutto coloro che stentavano a reperire candele come i ceti più poveri. Per questo ho sempre pensato che quella del buio sia in realtà una sorta di paura acquisita, e non primordiale.

Dovremmo ritrovare un dialogo con la mancanza di luce, poiché sviluppa in noi il concetto di uguaglianza; esiste qualcosa che annulli ogni valore materiale in modo più efficace del buio? Nella sua oscurità tutto è perfettamente uniforme; se un oggetto può pavoneggiarsi coi suoi superlativi grazie alla luce, al buio diventa inutile. Nullo. Noi stessi, quando siamo circondati dall'oscurità, mettiamo in secondo piano le vanità, la fisicità, perdiamo sicurezza, e possiamo solamente rinchiudere ogni fremito volitivo nella voce, l'unico sottile filo conduttore con la realtà abituale.

Tutto è luce in Occidente. Vi sono città famose solo per le spettacolari suggestioni da abuso luminoso. Quelle città, però, hanno bisogno della notte per stupire; Las Vegas, per esempio, di giorno è totalmente anonima. Una città che "vive" solo di notte grazie alla luce. Paradossi.

Sarà perché sono cresciuto vicino alle cantine (e per questo ringrazio la buona sorte) che necessito a volte di luce sommessa, del fuoco fatuo di una candela. Se non dell'oscurità assoluta; certo, sarei reticente se non ammettessi di provare spesso un iniziale disagio, che ho tuttavia imparato a interpretare come necessario, perché accende l'ispirazione. La fantasia nasce dal buio. Se solo imparassimo a scrollarci di dosso il fastidioso retaggio carico di pregiudizi sul suo conto, godremmo dei suoi effetti benefici sulla nostra psiche. Come lo sviluppo della curiosità: eludendo infatti i nostri sensi egli ci mette in una condizione di ricerca continua, anche solo per il compimento di un semplice gesto.
Soffoca la banalità.

Infine i sogni: cosa c'è di più imprevedibile della fase onirica? Ebbene, per raggiungerla dobbiamo chiudere gli occhi e affidarci a lui. Al buio.

venerdì 27 novembre 2009


L'amarezza del consumismo risiede in quel senso di insoddisfazione che proviamo ogni volta che appaghiamo l'ennesimo futile bisogno.

lunedì 16 novembre 2009

Questo non è (purtroppo) una pipa


Magritte aveva capito tutto. René Magritte, il pittore belga. Quello di "Questo non è una pipa". Il suo decontestualizzare gli oggetti attira l'attenzione di milioni di curiosi, affascinati dai suoi giochi surreali: un pittore dipinge un uccello mentre guarda un uovo; un uomo allo specchio che, invece di rifletterne in modo speculare l'immagine, ne mostra le spalle e la nuca. Accidenti che trovate! Si prova una forte destabilizzazione guardando le sue opere, ma si ha la sensazione che tutto finisca lì, all'interno del quadro. Un bel gioco appassionante, ironico, a tutta prima geniale, fuorviante al punto da rapire sinceramente. Tuttavia fine a se stesso. Però, che simpatico! E pensare che i francesi dicono dei belgi che non hanno senso dell'humor! "Questo non è una pipa"! Foucault ci ha scritto un libricino su questo quadro, di pochissime pagine; un rompicapo filosofico.

Occorre però che ognuno ci metta del proprio in un'opera d'arte; l'artista funge talvolta da psicologo: non mette insieme il puzzle per te, ma ti aiuta a comporlo. Lascio quindi da parte i sofismi di Foucault (col dovuto rispetto, ovviamente), e anche quelli di Magritte. Sì, anche i suoi. Ora non m'importa cosa volesse dire René. Una cosa mi attrae se mi fa pensare, non solo se m'induce a ripercorrere riflessioni altrui, per di più figlie di un diverso momento storico; ho bisogno di attualizzarla, di specchiarmici, di gettare, attraverso l'intuizione del suo potenziale, un fascio di luce sui miei coni d'ombra. E su quelli del mio tempo.
È una fase di destabilizzazione data dall'aver compreso quanto quei concetti fondamentali, che mi sono stati insegnati come immutevoli e univoci (o che ho recepito come tali) e che orbitano intorno alla vita di un uomo, assumano via via così tante - troppe - accezioni? Sì.
Che "Questo non è una pipa" lo si capisce crescendo. È la disillusione dell'adulto.

mercoledì 11 novembre 2009

L'Enigma del non sapere cosa dire


« Cosa fai quando ti trovi in compagnia e non sai cosa dire? Te ne resti zitto o parli della prima stupidaggine che ti salta in mente? »
« Trovo una scusa e mi tolgo dai piedi... »
« Ok, ma mettiamo il caso che tu non possa far altro che rimanere, come ti comporti? »
« Beh... restare zitto lo escluderei, perché chi è lì potrebbe pensare che sono noioso. Anzi, lo penserebbe di sicuro. E poi i silenzi mi inquietano! Le persone danno sempre l'impressione di voler essere intrattenute... »
« ... quindi, piuttosto, punti su un argomento leggero »
« Mah... sì e no. Anche questo può avere delle ripercussioni negative; bisogna saper gestire anche un argomento fittizio e conferirgli un certo interesse, per evitare che l'interlocutore ne colga l'artificiosità, perda l'attenzione, e ugualmente si faccia l'idea di trovarsi davanti una persona noiosa. In realtà penso che punterei sul gioco, sull'ironia, sullo scherzo... »
« Come dire che chi scherza spesso lo fa perché non ha nulla da dire. La risolvi così insomma... »
« Non è facile. Penso all'ironia come a una qualità congenita; bisogna anche, in un certo qual modo, saper scherzare. Chi non è avvezzo e lo fa solo per ripiego rischia d'esser frainteso... »
« Che guaio interagire a volte! Ma è poi così grave esser presi per noiosi? »

domenica 1 novembre 2009

C'era troppa gente



Nell'umano
irregolare coacervo
di Via del Corso
con un conoscente andavo

mentre in tasca
intorpidite
giocavano le mie dita
con una monetina.

Quand'ecco
poco più in là
sopra un sudicio cartone
disteso

la sua nodosa mano
verso me
confidente
un clochard tendeva

con gl'occhi indicando
esattamente
la mia tasca.
Ma no.

Nient'altro ebbe
che una tiepida
fugace occhiata.
C'era troppa gente.

venerdì 30 ottobre 2009

Superficialità e ignoranza nell’appartenenza politica estremista (da un articolo apparso su www.magozine.com)


Ho trent’anni, tutti vissuti a Roma. Dalle scuole medie fino alle superiori ho incontrato centinaia di ragazzi che amavano definirsi di questa o di quell’altra corrente politica: fascista, nazista, piuttosto che comunista o anarchica. Queste le più accreditate. Naturalmente, ne incontro ancora oggi di persone convinte e in taluni casi arciconvinte di appartenere proprio a quello schieramento preciso, tanto che a volte provo come un moto d’invidia per costoro.
Ma poi mi chiedo: quanti realmente sanno di cosa stanno parlando?
Per come la vedo io, prima di aderire parzialmente o totalmente a un'ideologia (cosa che per molti è già anacronistico di per sé, e meno male...) bisognerebbe conoscerne quantomeno la storia, le motivazioni che l'hanno portata al potere in un determinato periodo, i risultati tangibili per la collettività che ha ottenuto o scaturito, e soprattutto la collocazione e la compatibilità (se vi può essere) col nostro contesto sociopolitico.
Faccio un esempio ricorrente (almeno nella mia vita): centinaia di ragazzi amano definirsi di "destra" o fascisti. Alla base di questa scelta di campo vi è una decisione maturata tramite un ragionamento, filosofico e/o pragmatico, di comparazione delle realtà tra l’Italia del ventennio e quella odierna? Vi è la conoscenza oggettiva dell’azione e del pensiero di alcune figure di spicco quali Giovanni Gentile, Dino Grandi, o dello stesso Mussolini, e di cosa essi abbiano fatto a livello pratico in campo economico, giuridico, e sociale in quella penisola arretrata e sostanzialmente agraria? Vi è forse un puro discorso di identità nazionale da difendere, poiché si ritiene messa a repentaglio dalla ciclica immigrazione e, alla luce di ciò, ci si rifà a quel modello littorio tanto devoto alla causa tricolore e nazionalista (anche se in realtà nell’era fascista non vennero adottate contromisure per l’immigrazione tanto plausibili da potercisi oggi ispirare, perché esisteva il problema esattamente opposto, ossia quello dell’emigrazione)? O ci sono ragioni meramente modaiole, e quindi di una nemmeno troppo nascosta strumentalizzazione basata sulla sostanziale ignoranza, che si fa forte della naturale carica dirompente insita nella volontà di rivolta giovanile più o meno repressa contro un sistema oligarchico ritenuto palesemente imparziale?

Allo stesso modo, per la par condicio, coloro che si schierano a sinistra (corrente oltremodo vasta e con diverse accezioni per la verità) sanno effettivamente, per esempio, da cosa derivi il Socialismo e in quali paesi fu alla guida le prime (brevi) volte? O cosa dica il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, che è nientemeno del 1848? O quale fosse il ruolo e la posizione spesso scomoda del Pci nell’Italia dell’immediato dopoguerra prima e della guerra fredda poi? E chi si professa anarchico sa chi era Proudhon, o cosa scrivesse Bakunin o Malatesta o Cafiero?
Teoricamente bisognerebbe avere un’idea della storia delle ideologie, della loro evoluzione nel tempo e della loro attualizzazione, per non incorrere in un abbaglio. Ma ciò richiede tempo e volontà, ed ecco che la superficialità prende il sopravvento sotto forma di preconcetti, credenze popolari verosimili o, in alcuni casi parossistici, di violenza gratuita.
Ora non posso non essere sincero, per questo dico che a tante di quelle e ad altre domande non so dare ancora una risposta, e quindi penso di non potermi schierare totalmente con tizio piuttosto che con caio, né se ha o avrà senso farlo. Ma ciò non significa ch’io non abbia una mia coscienza politica più o meno definita, dettata da una logica che è la risultante di tre principi base: rispetto, non-violenza e pragmatismo.
Credo siano un’ottima base per poter costruire sopra tutto il resto.

giovedì 29 ottobre 2009

Sulla sensazione provocata in me da "Air Terminal Roma" di Stefano Fiore

 
 
Non c'è nulla da fare, diretto ed eloquente come un'immagine esiste ben poco. Soprattutto se ci vedi raffigurato ciò che di più recondito hai dentro. Una persona mentre vive si dimentica di ascoltarsi, di sondare la sua profondità, di vedersi. Fin quando dall'esterno non giunge un input, come successe al pirandelliano Vitangelo, detto Gengè.
In questo caso l'input è stato Air Terminal Roma, un'opera del mio amico Stefano. Nuvole fredde e cariche si addensano, mescolandosi con la luce calda del tramonto, su una città onirica e decadente che il titolo indica come Roma; ma, non so perché, le verticalità dei lampioni nell'oscurità avanzante, le torri in lontananza, i fumi evanescenti, mi danno l'impressione di contemplare i minareti di una metropoli orientale. Anzi, riesco ad essere più preciso: Istanbul. Perché Istanbul? La coincidenza (o l'enigma) di questo quadro, che in un istante ha estrapolato da chissà quale cono d'ombra della mia memoria una così avvolgente sensazione di sicurezza, sta proprio qui: ho avuto la fortuna di vagare per le strade di questa splendida ed evocativa città esattamente sotto la stessa luce che vive nell'opera; mi colpì moltissimo per il suo ossimoro caldo-freddo. La luce. Cristo, quanto influisce in me, e in ogni singola sua gradazione! Vederla riproposta qui, tale e quale, come se Stefano fosse stato a Istanbul con me, mi ha incantato.
Forse non è un tramonto quello. Ma il bagliore di un'esplosione, avvenuta chissà dove in lontananza. Dovrei oltrepassare lo Stargate che separa il mio reale dalla profondità della scena, ed entrarci dentro. Ma non sarebbe giusto. L'enigma si risolverebbe e perderebbe la sua attrattiva.
L'impressione di una città in rovina corona la visione: è la metafora della condizione umana del nostro tempo, esteriormente brillante. Internamente brillata. Air Terminal Roma somatizza sugli edifici della città la decadenza dell'umano moderno.
Ne sono attratto, di più non so. Come dicono i Bluvertigo "... mi piace tutto ciò che sembra decadenza".
Lo voglio veder penzolante da una parete a caso, ma che frequento spesso.