domenica 19 giugno 2011

Su "La morte di Ivan Il'ič" di Lev Tolstoj


Vi sono persone che, ormai adulte, si guardano indietro tentando di comprendere fino a che punto i loro criteri di ragionamento siano stati condizionati dalle convenzioni della società - intesa in senso volutamente generale, in quanto ognuna ha i suoi dettami più o meno vincolanti. Quesito secolare - è vero - ma senza tempo, poiché poco dopo il debutto nella mente già s'insinua nell'intimo più profondo, ed è tanto virulento quanto inconfessabile. Così intenso da provocare un processo catartico: una volta smascherato il grado di adesione a modelli precostituiti, ci sentiamo svuotati di un contenuto che sì non era il nostro, ma su cui facevamo comunque affidamento. Finiamo col pensare d’essere stati ingannati (da chi?) e, per una sorta di autodifesa, diminuiamo la volontà di mantenere la giusta dose di obiettività. A questo punto il processo può "sbandare" bruscamente verso una fase deleteria di scarico delle colpe e arenarsi: attribuire agli altri le nostre lacune della capacità di scegliere è ammettere implicitamente che quegli altri abbiano il controllo su di noi. Un controllo che si esercita in maniera direttamente proporzionale al bisogno di riconoscimento che abbiamo.
Un'amica una volta mi disse che non si riesce a stare da soli con se stessi quando non si sopporta il peso dei propri pensieri - cioè della causa da cui scaturiscono. Se Ivan Il'ič, nella parte finale della sua vita, avesse potuto, avrebbe certamente evitato di rimanere solo; si sarebbe volentieri confuso tra i colleghi di lavoro o tra le pile di documenti dalle pagine ingiallite, pur di riflettere su cose che non lo riguardassero. Ma non poteva. Non più. Perché non puoi svignartela quando ciò che ti fa male è il tuo corpo. Ed è per questo che il suo processo di catarsi arriverà fino in fondo. Ma chi era Ivan Il'ič? Dove viveva?

mercoledì 1 giugno 2011

Il Trilussa che c'è in ogni romano



Un vecchietto, ieri mattina, leggendo questa scritta (Più conosco le persone... più amo il mio gatto!) apposta dietro uno scooter "parcheggiato" nel bel mezzo del marciapiede, è sbottato:
"Certo, er gatto mica te manda affanculo! O armeno, nun lo fa nella lingua tua!"