sabato 17 novembre 2012

Tre colori: film Bianco




La trilogia dei colori del binomio Kieślowski-Piesziewicz uscì nelle sale cinematografiche tra il 1993 e il 1994, per la casa di produzione francese MK2 di Marin Karmitz. Le tre pellicole, con trame indipendenti l’una dall’altra, prendono il nome ciascuna da un colore della bandiera francese – blu, bianco, rosso. Ognuna di esse inoltre affronta una propria tematica, la somma delle quali confluisce nel celebre motto rivoluzionario transalpino liberté, égalité, fraternité. Il concetto di uguaglianza è quindi topico in Film Bianco, l’intreccio del quale si snoda in un crescendo sentimentale, drammatico e a tratti grottesco.

Karol (Zbigniew Zamachowski), parrucchiere polacco pluridiplomato, lavora a Parigi ed è sposato con la francese Dominique (Julie Delpy). I due non hanno rapporti sessuali da poco prima del matrimonio poiché Karol soffre di un disturbo dell’erezione. Dominique, stanca per il protrarsi dell’avvilente situazione, lo trascina in tribunale per matrimonio non consumato, dichiara davanti al giudice di non essere più innamorata di lui e ottiene presto il divorzio. Consapevole d’aver subito un trattamento iniquo per la sua condizione d’immigrato (in più non parla francese) e mortificato dal comportamento dell’ormai ex moglie – che lo lascia in mezzo a una strada con un'ingombrante valigia – Karol tenta un ultimo, disperato riavvicinamento con Dominique; ma la situazione peggiora ed è costretto a fuggire, ricercato dalla polizia. In una Parigi fredda e poco accogliente, impegna quasi tutto ciò che gli rimane per acquistare il busto in gesso d’una donna i cui lineamenti tradiscono quelli dell’ex moglie; Karol terrà sempre vicino a sé il busto come feticcio del suo infelice amore. In seguito, mendicando in una stazione della metropolitana, incontra Mikołaj (Janusz Gajos), polacco anche lui, il quale riuscirà rocambolescamente a riportarlo nella sua città natale, Varsavia. È qui che Karol ritrova il fratello Jurek (Jerzy Stuhr) e, aiutato da Mikołaj, insegue la sua volontà di riscatto, anche sessuale, escogitando un piano per ristabilire l’uguaglianza nei confronti di Dominique.

Il cast polacco è di prim’ordine: Zamachowski, Gajos e Stuhr, celebri non soltanto in Polonia, provengono dal teatro e hanno precedentemente recitato per Kieślowski – Jerzy Stuhr lo abbiamo visto in Habemus Papam (2011) nella parte del portavoce del pontefice. Il ruolo di Dominique è interpretato da Julie Delpy, talentuosa e giovane (allora) attrice francese, la quale diverrà nota anche negli Stati Uniti grazie alle ottime performance in varie pellicole del regista americano Richard Linklater (Prima dell’alba, Prima del tramonto, Waking Life).

Molto è stato scritto su Kieślowski, dalla sua formazione come documentarista negli anni del socialismo reale al fatto che sul set dedicasse un’attenzione maniacale ai dettagli: espressioni, gesti apparentemente accessori, caratterizzazioni che sembrano scivolare via con tanta naturalezza, sono spesso frutto d’un paziente lavoro dettato dal cineasta ai suoi attori, come la stessa Delpy afferma nei contenuti speciali del DVD. La predilezione del regista polacco e dello sceneggiatore Krzysztof Piesziewicz per la rielaborazione e l’attualizzazione di temi religiosi, letterari o storici radicati nell’immaginario collettivo – i dieci comandamenti per il Decalogo; il motto rivoluzionario per Tre film: blu, bianco, rosso; il progetto, incompiuto, di basare una seconda trilogia sulla Divina Commedia - ha reso peculiari le loro opere cinematografiche. Nel caso di Film Bianco, la strada che porta all’uguaglianza viene rappresentata come estremamente impervia: la privazione, l’umiliazione e il rischio sono tappe forzate di questo percorso, che Karol compie preservandosi con pazienza, fortezza di spirito, ragionamento. Ma anche senza smettere d’amare colei che non ha saputo comprendere la sua impasse fisica, attivando così la spirale iniqua. Karol, uomo dell’Est, non riesce ad abituarsi all’aria parigina, alla concezione occidentale - presto rinunciataria - dei rapporti di coppia che vede riflessa in Dominique; non a caso le chiede di trasferirsi con lui in Polonia. In ciò si può forse leggere una disuguaglianza che nel loro rapporto sta a monte. Inoltre, se è vero che il carattere decisamente goffo che Zamachowski imprime al suo personaggio concorre a renderlo in alcune circostanze grottesco, è pur vero che ne offre un’immagine estremamente umana e credibile, alla quale non si può che aderire. A livello tecnico, la prolessi (o anticipazione di un evento successivo, cara a Kieślowski) ricorre più volte all’interno dell’intreccio, e spesso si mantiene enigmatica, velata, limitandosi a guidare la percezione dello spettatore.

Gran parte delle riprese furono effettuate nella Polonia dei turbolenti anni di presidenza Wałęsa, in cui il paese stava velocemente passando a una economia di mercato e la disoccupazione raggiungeva livelli mai toccati prima (non a caso Karol, per guadagnare qualche soldo, si affida inizialmente al salone del fratello e ad attività e iniziative non proprio ortodosse). La foto della situazione polacca di allora sta comunque tutta in quel “oggi tutto si compra” che riecheggia nel corso del film. Ultima ma non meno importante, la stupenda colonna sonora del compositore Zbigniew Preisner - grande amico del cineasta polacco e (pare) autodidatta - valore aggiunto di questa pellicola che, ricordiamolo, valse a Kieślowski l’Orso d'argento al Festival del cinema di Berlino per la regia nel 1994.

Prometeo




A me stesso
costretto a precluderti
non perdo il gusto d'eludermi
per trafugarti.
Io Zeus.
Io Prometeo.
Io uomo.
Tu fuoco.



venerdì 9 novembre 2012

Er videopoker





Già da quarche tempo m'accorgevo
d'ave' er conto stranamente alleggerito
da prelievi misteriosi co' la carta.
Quarche fijo de na scrofa, me dicevo,
de clonalla chissà quanno era riuscito
e mo' succhia da 'sta falla e ce se 'nquarta.

'N me restava che bloccalla e denunzia',
che se pure d'acciuffallo stavo fresco
quantomeno j'avo chiuso er rubinetto.
Poi 'n ber giorno me mannarono a chiama'
pe' mostramme 'n par de video, e lì stranisco
finché er core nun me zompa giù dar petto.

De ave' er ladro dentro casa 'n m'aspettavo
perché quello ne lo schermo compromesso
n'era artri che mi'padre, e 'n me sbajavo.

C'ho avuto istinti brutti, lo confesso,
quanno poi me venne a piagne che li sordi
l'ha buttati ar videopoker come 'n fesso!

Me carmai più tardi, 'n nome dei ricordi,
poi je dissi "Mo' te curi, e annamo 'nsieme.
Ché 'r gioco è droga, e guai si te lo scordi".

domenica 28 ottobre 2012

La moje



Annanno stammatina a Pietralata
a fa la spesa pe' 'a vejarda sora Rosa
a 'na certa vedo gente aradunata
tutt'attorno a 'n se capiva bene cosa.

M'avvicino, sbircio 'n po'... e strabuzzo l'occhi!
Spiaccicato lì per tera c'era uno
tutto 'gnudo e, va da sé, bello che a tocchi.
"S'è buttato - sento di' - è er poro Bruno!

Co' qua moje a spenne e spanne i sordi a uffo
... nu' j'ha lassato manco li vestiti p'ammazzasse".
"Ortretutto è risaputo - se n'esce 'n fregno buffo -
che de cornificallo er problema 'n se ponesse".

'N quer mentre t'esce una co' 'n vestitino corto
corenno traballante su li tacchi
se china appena appena vers'er morto
e attacca a cantilena co' li fiocchi:

"Bruno, amore mio! - piagne farlocca -
'sto scherzo no nun me lo meritavo!

Tu guarda che disgrazia che me tocca...
... proprio a me, che ce lo sai quanto t'amavo!".

Lì 'no strano mormorio ruppe er silenzio
e tutti se guardorno co' du occhioni,
finché 'na voce nun troncò quer finto strazio:
"E pensa se te stava sui cojoni!".

sabato 6 ottobre 2012

Ragazza




Pe' la prima vorta oggi,
dolcissima ragazza,
'a voce de 'n core novo amo ascortato;
"È er fijoletto nostro!"

m'hai detto sottovoce
cor viso illuminato dar tripudio
e l'occhi traboccanti de stupore.
E a guardatte, tutto a 'n tratto ho ripensato

a quello che diceva poro nonno:
"De stupisse
ogni tanto c'è bisogno
pe' da un ber carcio 'n culo ar disincanto!".

Ma artro che ogni tanto,
mio caro nonno bello!
L'avessi conosciuta
'sto portento de ragazza

m'avresti come minimo
appuntato 'na medaja; e vai sicuro
che se er sor Alighieri
'nnanzi de Beatrice

a lei avesse 'ncrociata
ce tappezzava casa de Commedie e Vite Nove.
Perciò te tengo stretta, ragazza 'nnamorata,
e 'ntanto che te cresce beata 'n grembo

'st'anima minuscola e novella
me dico ch'é 'n peccato
che nun c'abbia già memoria,
 ché de tutti i posti ar monno

che 'n giorno se vedrà
nessuno
potrà mai superà
l'incanto de quello in cui sta adesso.

mercoledì 5 settembre 2012

Mi' padre




Tante e tante vorte
ho ripensato
ar tempo che ho passato
co' mi' padre.

'Na vita dentro casa
muso a muso.
De sera, notte e dì
davanti all'occhi.

Mo' sarà che è pe' 'no strano paradosso
se oggi m'aritrovo co' l'idea
d'avello conosciuto poco e niente;
dev'esse come 'n tarlo de la mente,

che se 'na cosa se la trova sempre 'nnanzi
alla fine vede solo li contorni.
Su 'sto fatto
come 'n pupo me ce 'ncanto,

me meravijo... e forse nun dovrei
ché a strigne poi er discorso fino all'osso,
prima dormivo io,
mo' tocca a lui.

domenica 8 luglio 2012

Chi dice e chi fa



C'è chi dice.
C'è chi fa.
C'è chi dice de fa'
e chi siccome ormai ha detto, de fa' mo' è costretto.

C'è chi nun dice tanto pe' di'
e chi nun fa tanto pe' fa'.
C'è chi nun dice pe' nun dove' fa'
e chi fa pe' nun dove' di'.

C'è chi dice de sape' fa',
chi sa fa' e nun lo dice,
chi deve fa' pe' nun sape' di'
e chi più nun sa fa', più vole di'.

C'è chi dice che nun se po' fa'
pe' fa' cose che nun se po' di'.
C'è chi, pe' 'na vorta che je riesce de fa', a rotta de collo dice
e chi a rotta de collo ha fatto e non j'è mai fregato de dillo.

C'è chi ha solo detto e s'è pentito
de nun avello pure fatto.
C'è chi dice che farà
er giorno in cui magari

più a nessuno servirà.
C'è chi nun fa niente pe' pote' di'
e chi fa de tutto pe' nun fa' fa'.
Avoja se ce stanno

e troppi ancora che c'ho l'affanno.
Ma alla fin fine de bono c'è
che s'ariconosce presto chi quer famoso mare
che sta tra er dire e er fare

è abituato a navigallo
e chi invece
nun c'ha mai manco messo
li piedi a mollo.



venerdì 18 maggio 2012

Ricordi aguzzi


Come il tale
che confidente
le sue membra abbandona

su un giaciglio d'irti chiodi,
così m'accingo
a ricordar di te.

martedì 17 aprile 2012

La società di coloro che si rimpinzano di pietanze


Qui di seguito una parafrasi ironica de "La società dei magnaccioni" (versione ridotta), celebre canzone popolare romanesca. Più giù il testo originale in dialetto.


Scostatevi oh! uomini dabbene, di modo che s'avanzi
codesta gioventù di capitolina provenienza,
dalla fantasia d'un abile pittore le nostre fattezze scaturiscono
e il cor delle donzelle soggioghiam
(e il cor delle donzelle soggioghiam)

sabato 14 aprile 2012

I timidi e gli sprezzanti


"Parrebbe che gli uomini sciolti, franchi nel conversare, e massime gli sprezzanti avessero più amor proprio degli altri e più stima di sé, e i timidi meno. Tutto al contrario. I timidi per eccesso di amor proprio e per il troppo conto che fanno di sé, temendo sempre di sfigurare e perdere la stima altrui o desiderando soverchiamente di acquistarla e di figurare, hanno sempre innanzi agli occhi il rischio del proprio onore, del proprio concetto, del proprio amore, e occupati e legati da questo pensiero, sono senza coraggio, e non si ardiscono mai. I franchi e gli sprezzanti per la contraria cagione, cioè per aver poca cura e poco concetto di sé, o desiderio della stima degli altri (che viene a essere il medesimo), sia che essi sieno tali per natura, o per abito acquisito. Così che essi offendono spesse volte e facilmente, o rischiano di offendere l'amor proprio degli altri, e n'hanno poca cura per poco amor di se stessi."
Giacomo Leopardi, Zibaldone

martedì 13 marzo 2012

Geniale




Geniale!
A cosa
cotal aggettivo
mai accorderò?

All'Eccezionale
che 'sì elementar si mostra
ch'ancor più
mi strabilia.

E in quest'abbaglio
m'inganno
agevolmente
poterlo imitar.

martedì 14 febbraio 2012

La burla


Volendo dar ausilio a un pargoletto
che al citofon si stendea
senz'arrivare
un gentiluomo a quello sorridendo

disse:
"Piccino, è qui che vuoi pigiare?".
Annuendogli con fare birichino
sbirciando tutt'attorno

che niun vi fosse
compiuta ch'ebbe quei la cortesia
strillò quello: "Scappamo, su scappamo!
prima che ce s'affacci!".

lunedì 6 febbraio 2012

Via Tiburtina



Nei giorni del commiato dicembrino
tra scene e messinscene natalizie
s'addensa nei negozi a Tiburtina
smaniosa la congerie dei fruitori.

Inquiete,
mobilissime figure
producon mille suoni acuti e sordi
e su tutti, alienante, ve n'è uno

a intervalli regolari ripetuto.
È il clacson sconsolato
di un'inerte utilitaria
nell'antro suo di forza confinata

dal gigantesco suv in doppia fila.
Ma ecco!
Da remoto luogo giunge
lo Creato tutt'attorno rimirando

il rubicondo pingue possessor
del diversamente posteggiato Panzer;
buste alla mano
espression di circostanza

si rivolge all'infelice sequestrato:
"Mi deve perdonar! Da molto attende?"
"Io no! - gli risponde un giovanotto -
Giusto mo' ho dato er cambio a mi' fratello!".

giovedì 2 febbraio 2012

La fine e l’inizio - Wisława Szymborska (1923-2012)


Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un pò d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

venerdì 27 gennaio 2012

Via Prenestina




Lungo via Prenestina
al tepor dell'abitacolo
la fitta semaforica
infilando pigramente

un vecchietto
meccanico i passi ripete
della danza del guidator:
frizione-prima-rilascia/accelera;

frizione-seconda-rilascia/accelera;
frizione-gratta/terza-rilascia/accelera;
rallenta-arresta e via da capo.
Quand'ecco

d'improvviso
la vecchia sua minuscola vettura
sussulta
cede

e infin si tace.
Prova: niente.
Ancora: macché.
Di nuovo: defunta.

Lesta, subito dietro
variopinta imbellettata
strombazza la cinquantenne.
Ininterrottamente.

"A bella! -
s'affaccia a lei l'anziano -
Se me fai riparti' la machina
io t'areggo er clacson!".

venerdì 20 gennaio 2012

La cioccolata


Stephen J Shanabrook - Chocolate art

“ ... e tiramene uno buono!”.
“Tieni, vedi questo! Basta che non urli!”.
Fra' e Giannino erano soliti scavalcare la bassa recinzione della tenuta del podestà Barillaro ogni qualvolta venisse loro voglia d’ingozzarsi di fichi d’India. Non era poi così complicato, bastava portarsi dietro un coltellino per mondarli e il più era fatto. Bisognava certo inventarsi qualcosa lì a Sorianello, povero e minuscolo centro abitato della Calabria, coricato – proprio come le cinquecento anime che vi abitavano - su uno spuntone di roccia; e di fantasia certo non difettavano, Fra' e Giannino. Tre o quattro volte avevano rischiato sul serio d'essere pizzicati ma quel giorno il podestà Barillaro e i suoi compaesani camerati avevano ben altro a cui pensare. Era il 5 settembre del ’43: gli anglo-canadesi, con Montgomery in testa, erano sbarcati a Reggio Calabria da appena un giorno e mezzo e ora stavano praticamente dietro l'angolo.

A ogni modo, non appena ebbero il ventre pieno, i due furfantelli - quattordici anni in due, equamente divisi - si gettarono in terra all’ombra di un melo a tirar sassi a merli e pettirossi.
“Zitto zitto, eccolo! Guardalo lì. Ora lo piglio come si deve... “.
Giannino fece per prendere la mira; il merlo desistette dal beccare tra l'erba e rimase immobile, come se avesse capito e volesse sfidare il mocciosetto che, dopo aver trattenuto il respiro, vibrò il colpo.

Boom! In quel preciso istante, un fracasso assordante spaurì i bambini, i quali corsero più veloce che poterono dietro un vecchio muretto di pietre.
“Ma a cosa cavolo hai mirato? Metti la testa fuori, guarda che è successo”.
“Io? Mettila tu!” replicò impaurito Giannino.
“Sei stato tu, e tu devi guardare!” ribatté Fra'.
Dopo un piccolo bisticcio guardo io guardi tu, i due si affacciarono cauti, uno da una parte del muretto e l'altro da quella opposta e a un tratto Fra’ ritirò di colpo la testa indietro, con gli occhi spalancati per lo stupore e lo spavento.
“Beh? Cos’hai visto?” chiese Giannino trepidante.
L'altro, senza dire una parola, lo prese per un braccio e gli indicò un punto una ventina di metri più in là.

Parte dello sconfinato podere di Barillaro era posto una quindicina di metri sotto il livello della strada di montagna, battuta solitamente da greggi, dalle auto di un paio d’abbienti legati al partito, oppure, a seguito dello sbarco alleato, dagli ultimi mezzi tedeschi in fuga verso la linea provvisoria del Volturno. Ora, chiunque abbia praticato le strade di montagna calabresi sa che esse consistono - oggi come allora - in una serie di curve e tornanti a ripetizione con annessi strapiombi ai lati della carreggiata, roba da far impallidire il più abile dei guidatori, il che impone una velocità mediamente bassa se non si è pratici e non si vuol finire giù per una rupe. E giù per una rupe quel giorno ci finì una camionetta della Wehrmacht. Sfondato l'esile parapetto, il mezzo compì un rovinoso salto nel vuoto, bucò la fitta concentrazione di alberi e impattò da un lato sul terreno irregolare, a pochi decine di metri da Fra’ e Giannino.

“Ora che si fa? Andiamo a chiamare mio fratello?”.
Fra’ fece capolino: nessun movimento dall’interno dell’abitacolo. Prese una pietra e la tirò in direzione del rottame fumante cogliendone le lamiere divelte, il che provocò un rumore sordo; ma ugualmente, nessun segno di vita.
“Vieni, arriviamo fin lì” disse a Giannino.
“Senti, tu sei scemo!”.
Fra’ sbuffò seccato; fissò qualche secondo ancora quell'accozzaglia di metallo con sempre crescente curiosità e sempre meno timore, poi si alzò, uscì guardingo e riparandosi di albero in albero si avvicinò. Cioccolata. Sparsa in terra un po’ovunque e persino sui fitti rami. E che ci faceva lì tutta quella cioccolata? Ci volle poco per accendere l'immaginazione di Fra’, che iniziò subito a chiedersi se non fosse il caso di addentarne un po’. Al contrario, Giannino non osava avvicinarsi; si limitava a spiare l’amico da dietro il muretto, pieno d’interrogativi. E infine sbottò:
“Allora, torni qui? C’è da chiamare qualcuno... vado da mio fratello, adesso!”.
“E vai” rispose Fra’ senza voltarsi.
“Dopo. Uffa, dopo! Guarda che... ”.
“… dimmi - l'interruppe Fra’ - quant’è che non mangi cioccolata?”.
“E chi si ricorda! Perché tu ne hai? Ma che c’entra adesso?”.
“Qui è pieno”.
In un istante Giannino perse quasi ogni remora. Balzò dal muretto e arrivò nei pressi di Fra’, da dove poté ampiamente constatare che non gli erano state raccontate fandonie. Poi un rumore proveniente dell’abitacolo; i due schizzarono di nuovo dietro il muretto. Un colpo. Un altro più forte. Al terzo, lo sportello della camionetta stridette, aprendosi violentemente. Emerse la testa insanguinata di un uomo che, con enorme fatica, riuscì a estrarsi dal rottame; sembrava più ammaccato del suo mezzo: più volte provò a mettersi in piedi ma senza successo. Non indossava alcuna divisa e a guardarlo non si poteva certo dire che avesse l’aria d’un tedesco: moro, coi baffi folti e scuri, e non che apparisse altissimo. Anzi. I bambini lo spiavano con la bocca spalancata e i pensieri sospesi. Ma Giannino non resistette. All'improvviso si alzò senza dire nulla e scappò via come se avesse un cane idrofobo alle calcagna; non si voltò nemmeno mezza volta verso Fra’, che pure lo chiamava, e sparì presto oltre l’erba alta.

Cautamente Fra' s'avvicinò all’uomo riverso a terra, lo sentì emettere gemiti e pronunciare parole. Altro che tedesco, era calabrese! A quel punto chissà, poteva addirittura conoscerlo; tentò di osservarne i tratti somatici ma era troppo turbato e del resto era difficile decifrarli poiché in gran parte coperti di sangue. Desiderava parlargli ma il solo pensiero d'aprire bocca e prendere contatto con quella specie di mistero gl'infuse nell’animo ulteriore tensione: si avvicinò ancora un po’, stringendo tra le mani un grosso sasso, pronto a scagliarglielo contro qualora si fosse messa male. Poi si fece coraggio, deglutì sonoramente, e disse a voce alta:
“Chi sei? Come ti chiami?”. L’uomo voltò debolmente il capo verso il piccolo, che sussultò, e tendendogli la mano tremante rispose:
“E.. Elio... sono Elio... un po’ d’acqua... p... per favore”.
Era ridotto davvero male; per evitare di guardarlo Fra' aveva preso a fissare una tavoletta di cioccolato tra le tante sparse lì a terra. Ma quello continuava a gemere, a lamentarsi e lui si sentiva in colpa a far finta di nulla. Anzi, si sentiva proprio uno stupido. Così gettò il sasso, corse più che poté fino al pozzo e tornò tutto trafelato indietro, da Elio, con un recipiente sgangherato ma pieno d'acqua fin quasi all'orlo. Lo poggiò accanto alla testa dell'uomo e vi affondò le mani; gli lavò il viso dal sangue e gli inumidì le labbra. Ecco, quel volto gli appariva ora chiaro, così come il profondo taglio poco sotto la tempia destra; no, non lo conosceva, non lo aveva proprio mai visto, ma cosa contava?
“Oh! Come stai? Che ti fa male la testa?”.
L’uomo accennò un sorriso, subito soffocato da veementi colpi di tosse, poi chiuse gli occhi e rispose sussurrando:
“I...insomma. Senti... ascoltami: la cioccolata, prendila se... se vuoi. Ma portane un po' a... ad Anna...”. “Anna? Anna chi? ” trasalì Fra'.
Tacque un momento, Elio. Poi lentamente riprese:
“Che... che spaccone... sono. L'aveva vista... mangiare ai tedeschi... Anna… una che… che conosco… be… bellissima. Te la porto io se... se vuoi! Tanto... tanto se ne vanno. Scappano, che gli frega a loro della... cioccolata? Scommetti? Te ne porto un sacco, ve... drai. Ma… ma i tedeschi, i tedeschi m'hanno visto. Mi… mi seguono, attento! Che... spaccone sono. I freni... non funzio... nano. I freni. Che spaccone. I f... reni...”.
L'uomo iniziò a respirare a fatica. Il piccolo diede un’occhiata alla ferita e vide che sanguinava molto. La pulì ancora e ancora, adagio; cercò di farlo bere ma era tutt'altro che facile, ché tossiva in continuazione. Ma Elio sentiva dolore soprattutto alla schiena; delle fitte lo affliggevano poco sotto l'altezza del collo. Si fece forza, cercò d’alzarsi, smaniava, si dibatteva. Fra' lo guardava e non sapeva come essergli d'aiuto. Si decise, lo prese per le spalle: chiuse gli occhi e strinse i denti tentando di sollevarlo, finché non lo sentì alternare singhiozzi alla già difficoltosa respirazione. Piangeva, Elio. Scoraggiato, con gli occhi semichiusi e il viso rosso per lo sforzo, Fra’ riprese a fare quel che poteva: inumidirgli le labbra e lavare la ferita. Poco dopo, quasi d'improvviso, l'uomo sembrò calmarsi.

Intanto, dalla collina, qualcuno s'avvicinava velocemente. Fra' riconobbe presto sia Giannino che Michele, il fratello ventenne. La scena che si presentò agl'occhi di quest'ultimo aveva del surreale: un bambino, un uomo sanguinante, un catorcio di camionetta e cioccolata dappertutto; alzò lo sguardo verso la strada e scorse il punto in cui il parapetto era stato sfondato.
“Gesùmmaria! - esclamò e con gli occhi sbarrati si rivolse all'uomo riverso in terra - Co... come stai? Come ti chiami?”.
Ma quello non rispose.
“Si chiama Elio?” disse Fra' indicandogli la ferita.
Michele si tolse la camicia e l'arrotolò rapidamente, la bagnò nell'acqua e si chinò per premerla sul profondo taglio sanguinante.
“Ascolta - fece a Fra' - sta' ancora con lui. Continua a premere qui, così. Tra un minuto bagnala ancora e premila sulla ferita di nuovo. Vado dal dottor Schiavello...”.
Stava per rialzarsi e correre via ma Elio trovò la forza di afferrargli il braccio e, in un flebile sospiro, dire: “Anna... Gozzanti. Sta a Soriano...”.
“Sì - intervenne subito Fra' - mi ha detto di dare a lei la cioccolata, la conosci?”.
“Eh? Sì sì, non ti preoccupare ora. Anna Gozzanti, di Soriano. Stai tranquillo, Elio. Fra' vado, faccio più presto che posso”.
Giannino, che per la paura non riusciva a spiccicare una parola, gli andò subito dietro. Ma dopo qualche metro ci ripensò: si fermò e si nascose dietro un vecchio cipresso a sbirciare.

Fra' rimase così accanto a Elio, ormai ridotto a un alito. In balia di quella tragica circostanza, il bambino premeva sulla ferita e s'interrogava, s'interrogava e premeva. È così che si muore? Accade per tutti la stessa cosa e basta premere nel punto in cui esce il sangue per guarire? E se non lo farà bene Elio morirà? L'angoscia intrise i suoi pensieri, così come il sangue faceva con la camicia, divenuta ormai un piccolo straccetto rosso e denso. “Guarda quanto sangue, sciacqualo via! - diceva tra sé - e il viso, sì il viso, lavalo! Quanto sangue ho sulle mani. Perché non arriva nessuno? Ma'? Mamma? Quanto sangue. Premi...”.

Fu nell'istante in cui assaporò le sue lacrime che Fra' percepì l'assenza finale dell'uomo. Allora non ebbe paura di guardarlo dritto negli occhi. Tutti i sogni, le illusioni, l’amore dato e quello ricevuto, le idee buone e quelle stupide; e l’odio e i legami e le emozioni intense e la disgrazia; tutto, di quell’uomo, finiva ora tra le sue piccole mani. Adesso sì, era solo Fra', e intorno silenzio. Dietro il vecchio cipresso, Giannino, con lo sguardo triste, mordicchiava una tavoletta di cioccolato.

giovedì 12 gennaio 2012

Creativity Papers n° 5


Esce oggi il quinto numero della webzine Creativity Papers! Consultatela o scaricatela pure qui! All'interno troverete anche una mia recensione del celebre Tre colori: Film Bianco.