venerdì 27 gennaio 2012

Via Prenestina




Lungo via Prenestina
al tepor dell'abitacolo
la fitta semaforica
infilando pigramente

un vecchietto
meccanico i passi ripete
della danza del guidator:
frizione-prima-rilascia/accelera;

frizione-seconda-rilascia/accelera;
frizione-gratta/terza-rilascia/accelera;
rallenta-arresta e via da capo.
Quand'ecco

d'improvviso
la vecchia sua minuscola vettura
sussulta
cede

e infin si tace.
Prova: niente.
Ancora: macché.
Di nuovo: defunta.

Lesta, subito dietro
variopinta imbellettata
strombazza la cinquantenne.
Ininterrottamente.

"A bella! -
s'affaccia a lei l'anziano -
Se me fai riparti' la machina
io t'areggo er clacson!".

venerdì 20 gennaio 2012

La cioccolata


Stephen J Shanabrook - Chocolate art

“ ... e tiramene uno buono!”.
“Tieni, vedi questo! Basta che non urli!”.
Fra' e Giannino erano soliti scavalcare la bassa recinzione della tenuta del podestà Barillaro ogni qualvolta venisse loro voglia d’ingozzarsi di fichi d’India. Non era poi così complicato, bastava portarsi dietro un coltellino per mondarli e il più era fatto. Bisognava certo inventarsi qualcosa lì a Sorianello, povero e minuscolo centro abitato della Calabria, coricato – proprio come le cinquecento anime che vi abitavano - su uno spuntone di roccia; e di fantasia certo non difettavano, Fra' e Giannino. Tre o quattro volte avevano rischiato sul serio d'essere pizzicati ma quel giorno il podestà Barillaro e i suoi compaesani camerati avevano ben altro a cui pensare. Era il 5 settembre del ’43: gli anglo-canadesi, con Montgomery in testa, erano sbarcati a Reggio Calabria da appena un giorno e mezzo e ora stavano praticamente dietro l'angolo.

A ogni modo, non appena ebbero il ventre pieno, i due furfantelli - quattordici anni in due, equamente divisi - si gettarono in terra all’ombra di un melo a tirar sassi a merli e pettirossi.
“Zitto zitto, eccolo! Guardalo lì. Ora lo piglio come si deve... “.
Giannino fece per prendere la mira; il merlo desistette dal beccare tra l'erba e rimase immobile, come se avesse capito e volesse sfidare il mocciosetto che, dopo aver trattenuto il respiro, vibrò il colpo.

Boom! In quel preciso istante, un fracasso assordante spaurì i bambini, i quali corsero più veloce che poterono dietro un vecchio muretto di pietre.
“Ma a cosa cavolo hai mirato? Metti la testa fuori, guarda che è successo”.
“Io? Mettila tu!” replicò impaurito Giannino.
“Sei stato tu, e tu devi guardare!” ribatté Fra'.
Dopo un piccolo bisticcio guardo io guardi tu, i due si affacciarono cauti, uno da una parte del muretto e l'altro da quella opposta e a un tratto Fra’ ritirò di colpo la testa indietro, con gli occhi spalancati per lo stupore e lo spavento.
“Beh? Cos’hai visto?” chiese Giannino trepidante.
L'altro, senza dire una parola, lo prese per un braccio e gli indicò un punto una ventina di metri più in là.

Parte dello sconfinato podere di Barillaro era posto una quindicina di metri sotto il livello della strada di montagna, battuta solitamente da greggi, dalle auto di un paio d’abbienti legati al partito, oppure, a seguito dello sbarco alleato, dagli ultimi mezzi tedeschi in fuga verso la linea provvisoria del Volturno. Ora, chiunque abbia praticato le strade di montagna calabresi sa che esse consistono - oggi come allora - in una serie di curve e tornanti a ripetizione con annessi strapiombi ai lati della carreggiata, roba da far impallidire il più abile dei guidatori, il che impone una velocità mediamente bassa se non si è pratici e non si vuol finire giù per una rupe. E giù per una rupe quel giorno ci finì una camionetta della Wehrmacht. Sfondato l'esile parapetto, il mezzo compì un rovinoso salto nel vuoto, bucò la fitta concentrazione di alberi e impattò da un lato sul terreno irregolare, a pochi decine di metri da Fra’ e Giannino.

“Ora che si fa? Andiamo a chiamare mio fratello?”.
Fra’ fece capolino: nessun movimento dall’interno dell’abitacolo. Prese una pietra e la tirò in direzione del rottame fumante cogliendone le lamiere divelte, il che provocò un rumore sordo; ma ugualmente, nessun segno di vita.
“Vieni, arriviamo fin lì” disse a Giannino.
“Senti, tu sei scemo!”.
Fra’ sbuffò seccato; fissò qualche secondo ancora quell'accozzaglia di metallo con sempre crescente curiosità e sempre meno timore, poi si alzò, uscì guardingo e riparandosi di albero in albero si avvicinò. Cioccolata. Sparsa in terra un po’ovunque e persino sui fitti rami. E che ci faceva lì tutta quella cioccolata? Ci volle poco per accendere l'immaginazione di Fra’, che iniziò subito a chiedersi se non fosse il caso di addentarne un po’. Al contrario, Giannino non osava avvicinarsi; si limitava a spiare l’amico da dietro il muretto, pieno d’interrogativi. E infine sbottò:
“Allora, torni qui? C’è da chiamare qualcuno... vado da mio fratello, adesso!”.
“E vai” rispose Fra’ senza voltarsi.
“Dopo. Uffa, dopo! Guarda che... ”.
“… dimmi - l'interruppe Fra’ - quant’è che non mangi cioccolata?”.
“E chi si ricorda! Perché tu ne hai? Ma che c’entra adesso?”.
“Qui è pieno”.
In un istante Giannino perse quasi ogni remora. Balzò dal muretto e arrivò nei pressi di Fra’, da dove poté ampiamente constatare che non gli erano state raccontate fandonie. Poi un rumore proveniente dell’abitacolo; i due schizzarono di nuovo dietro il muretto. Un colpo. Un altro più forte. Al terzo, lo sportello della camionetta stridette, aprendosi violentemente. Emerse la testa insanguinata di un uomo che, con enorme fatica, riuscì a estrarsi dal rottame; sembrava più ammaccato del suo mezzo: più volte provò a mettersi in piedi ma senza successo. Non indossava alcuna divisa e a guardarlo non si poteva certo dire che avesse l’aria d’un tedesco: moro, coi baffi folti e scuri, e non che apparisse altissimo. Anzi. I bambini lo spiavano con la bocca spalancata e i pensieri sospesi. Ma Giannino non resistette. All'improvviso si alzò senza dire nulla e scappò via come se avesse un cane idrofobo alle calcagna; non si voltò nemmeno mezza volta verso Fra’, che pure lo chiamava, e sparì presto oltre l’erba alta.

Cautamente Fra' s'avvicinò all’uomo riverso a terra, lo sentì emettere gemiti e pronunciare parole. Altro che tedesco, era calabrese! A quel punto chissà, poteva addirittura conoscerlo; tentò di osservarne i tratti somatici ma era troppo turbato e del resto era difficile decifrarli poiché in gran parte coperti di sangue. Desiderava parlargli ma il solo pensiero d'aprire bocca e prendere contatto con quella specie di mistero gl'infuse nell’animo ulteriore tensione: si avvicinò ancora un po’, stringendo tra le mani un grosso sasso, pronto a scagliarglielo contro qualora si fosse messa male. Poi si fece coraggio, deglutì sonoramente, e disse a voce alta:
“Chi sei? Come ti chiami?”. L’uomo voltò debolmente il capo verso il piccolo, che sussultò, e tendendogli la mano tremante rispose:
“E.. Elio... sono Elio... un po’ d’acqua... p... per favore”.
Era ridotto davvero male; per evitare di guardarlo Fra' aveva preso a fissare una tavoletta di cioccolato tra le tante sparse lì a terra. Ma quello continuava a gemere, a lamentarsi e lui si sentiva in colpa a far finta di nulla. Anzi, si sentiva proprio uno stupido. Così gettò il sasso, corse più che poté fino al pozzo e tornò tutto trafelato indietro, da Elio, con un recipiente sgangherato ma pieno d'acqua fin quasi all'orlo. Lo poggiò accanto alla testa dell'uomo e vi affondò le mani; gli lavò il viso dal sangue e gli inumidì le labbra. Ecco, quel volto gli appariva ora chiaro, così come il profondo taglio poco sotto la tempia destra; no, non lo conosceva, non lo aveva proprio mai visto, ma cosa contava?
“Oh! Come stai? Che ti fa male la testa?”.
L’uomo accennò un sorriso, subito soffocato da veementi colpi di tosse, poi chiuse gli occhi e rispose sussurrando:
“I...insomma. Senti... ascoltami: la cioccolata, prendila se... se vuoi. Ma portane un po' a... ad Anna...”. “Anna? Anna chi? ” trasalì Fra'.
Tacque un momento, Elio. Poi lentamente riprese:
“Che... che spaccone... sono. L'aveva vista... mangiare ai tedeschi... Anna… una che… che conosco… be… bellissima. Te la porto io se... se vuoi! Tanto... tanto se ne vanno. Scappano, che gli frega a loro della... cioccolata? Scommetti? Te ne porto un sacco, ve... drai. Ma… ma i tedeschi, i tedeschi m'hanno visto. Mi… mi seguono, attento! Che... spaccone sono. I freni... non funzio... nano. I freni. Che spaccone. I f... reni...”.
L'uomo iniziò a respirare a fatica. Il piccolo diede un’occhiata alla ferita e vide che sanguinava molto. La pulì ancora e ancora, adagio; cercò di farlo bere ma era tutt'altro che facile, ché tossiva in continuazione. Ma Elio sentiva dolore soprattutto alla schiena; delle fitte lo affliggevano poco sotto l'altezza del collo. Si fece forza, cercò d’alzarsi, smaniava, si dibatteva. Fra' lo guardava e non sapeva come essergli d'aiuto. Si decise, lo prese per le spalle: chiuse gli occhi e strinse i denti tentando di sollevarlo, finché non lo sentì alternare singhiozzi alla già difficoltosa respirazione. Piangeva, Elio. Scoraggiato, con gli occhi semichiusi e il viso rosso per lo sforzo, Fra’ riprese a fare quel che poteva: inumidirgli le labbra e lavare la ferita. Poco dopo, quasi d'improvviso, l'uomo sembrò calmarsi.

Intanto, dalla collina, qualcuno s'avvicinava velocemente. Fra' riconobbe presto sia Giannino che Michele, il fratello ventenne. La scena che si presentò agl'occhi di quest'ultimo aveva del surreale: un bambino, un uomo sanguinante, un catorcio di camionetta e cioccolata dappertutto; alzò lo sguardo verso la strada e scorse il punto in cui il parapetto era stato sfondato.
“Gesùmmaria! - esclamò e con gli occhi sbarrati si rivolse all'uomo riverso in terra - Co... come stai? Come ti chiami?”.
Ma quello non rispose.
“Si chiama Elio?” disse Fra' indicandogli la ferita.
Michele si tolse la camicia e l'arrotolò rapidamente, la bagnò nell'acqua e si chinò per premerla sul profondo taglio sanguinante.
“Ascolta - fece a Fra' - sta' ancora con lui. Continua a premere qui, così. Tra un minuto bagnala ancora e premila sulla ferita di nuovo. Vado dal dottor Schiavello...”.
Stava per rialzarsi e correre via ma Elio trovò la forza di afferrargli il braccio e, in un flebile sospiro, dire: “Anna... Gozzanti. Sta a Soriano...”.
“Sì - intervenne subito Fra' - mi ha detto di dare a lei la cioccolata, la conosci?”.
“Eh? Sì sì, non ti preoccupare ora. Anna Gozzanti, di Soriano. Stai tranquillo, Elio. Fra' vado, faccio più presto che posso”.
Giannino, che per la paura non riusciva a spiccicare una parola, gli andò subito dietro. Ma dopo qualche metro ci ripensò: si fermò e si nascose dietro un vecchio cipresso a sbirciare.

Fra' rimase così accanto a Elio, ormai ridotto a un alito. In balia di quella tragica circostanza, il bambino premeva sulla ferita e s'interrogava, s'interrogava e premeva. È così che si muore? Accade per tutti la stessa cosa e basta premere nel punto in cui esce il sangue per guarire? E se non lo farà bene Elio morirà? L'angoscia intrise i suoi pensieri, così come il sangue faceva con la camicia, divenuta ormai un piccolo straccetto rosso e denso. “Guarda quanto sangue, sciacqualo via! - diceva tra sé - e il viso, sì il viso, lavalo! Quanto sangue ho sulle mani. Perché non arriva nessuno? Ma'? Mamma? Quanto sangue. Premi...”.

Fu nell'istante in cui assaporò le sue lacrime che Fra' percepì l'assenza finale dell'uomo. Allora non ebbe paura di guardarlo dritto negli occhi. Tutti i sogni, le illusioni, l’amore dato e quello ricevuto, le idee buone e quelle stupide; e l’odio e i legami e le emozioni intense e la disgrazia; tutto, di quell’uomo, finiva ora tra le sue piccole mani. Adesso sì, era solo Fra', e intorno silenzio. Dietro il vecchio cipresso, Giannino, con lo sguardo triste, mordicchiava una tavoletta di cioccolato.

giovedì 12 gennaio 2012

Creativity Papers n° 5


Esce oggi il quinto numero della webzine Creativity Papers! Consultatela o scaricatela pure qui! All'interno troverete anche una mia recensione del celebre Tre colori: Film Bianco.