martedì 1 febbraio 2011

No Pentothal, no party


Una gradita notizia: l'Italia, dopo aver proposto la moratoria votata dall'Assemblea delle Nazioni Unite nel 2007, è ancora in prima linea contro la pena di morte. Lo testimonia questo articolo apparso su "la Repubblica" il 23 gennaio scorso.

Ciò mi offre il destro per dire quello che penso a riguardo, e cioè che non considererò mai davvero civilizzati quei paesi il cui codice penale prevede ancora la pena capitale. È una macroscopica contraddizione legalizzata: se uno stato contempla l'omicidio come il crimine massimo che un uomo possa commettere e, contestualmente, usa la pena capitale come suo stesso deterrente, allora compie un crimine per punirne un altro. O si dovrebbe forse pensare che l'omicidio sia esecrabile solo quando non è commesso dallo Stato? No se non vogliamo iniziare a dare accezioni diverse al significato (che non ne ammette) di questo gesto estremo, ma si è indotti a ritenere che sia così, altrimenti sui governi ricadrebbe la responsabilità diretta del delitto. A cosa serve l'eliminazione fisica di un condannato? Nel 1763 Beccaria scriveva: "La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti". E ancora: "Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice" (Dei delitti e delle pene). I fatti, a tutt'oggi, non lo smentiscono.


Non ci si può nemmeno consolare pensando che questo paradossale deterrente sia prerogativa delle sole zone del mondo generalmente considerate (politicamente, socialmente ed economicamente) retrograde, anzi: ne sono fiere sostenitrici  le avanguardie che regolano il metronomo globale del nostro tempo - certo, con minoranze dissenzienti al proprio interno, purtroppo in alcun modo influenti. L'Europa, ad oggi, è l'unico continente - Antartide a parte - ad aver ripudiato in blocco la soppressione fisica del condannato, grazie anche all'influenza e alla sensibilizzazione di molti intellettuali nel corso dei secoli. Proprio gli Stati Uniti annoverano nel proprio patrimonio letterario gli scritti di uno dei fautori della non-violenza, il trascendentalista Thoreau, che scriveva: "ciò che debbo fare è accertarmi, in ogni caso, che non mi sto prestando al male da me condannato" (Disobbedienza civile, 1849).
In questo senso, e ritorno a bomba, la storia rende onore alla nostra nazione: già ai tempi dell'assolutismo illuminato, nel Granducato di Toscana venne soppressa la pena capitale, come recita l'epigrafe che campeggia nel cortile della Dogana di Palazzo Vecchio, a Firenze. Questo sì che è un vanto.


Nessun commento:

Posta un commento