domenica 19 giugno 2011

Su "La morte di Ivan Il'ič" di Lev Tolstoj


Vi sono persone che, ormai adulte, si guardano indietro tentando di comprendere fino a che punto i loro criteri di ragionamento siano stati condizionati dalle convenzioni della società - intesa in senso volutamente generale, in quanto ognuna ha i suoi dettami più o meno vincolanti. Quesito secolare - è vero - ma senza tempo, poiché poco dopo il debutto nella mente già s'insinua nell'intimo più profondo, ed è tanto virulento quanto inconfessabile. Così intenso da provocare un processo catartico: una volta smascherato il grado di adesione a modelli precostituiti, ci sentiamo svuotati di un contenuto che sì non era il nostro, ma su cui facevamo comunque affidamento. Finiamo col pensare d’essere stati ingannati (da chi?) e, per una sorta di autodifesa, diminuiamo la volontà di mantenere la giusta dose di obiettività. A questo punto il processo può "sbandare" bruscamente verso una fase deleteria di scarico delle colpe e arenarsi: attribuire agli altri le nostre lacune della capacità di scegliere è ammettere implicitamente che quegli altri abbiano il controllo su di noi. Un controllo che si esercita in maniera direttamente proporzionale al bisogno di riconoscimento che abbiamo.
Un'amica una volta mi disse che non si riesce a stare da soli con se stessi quando non si sopporta il peso dei propri pensieri - cioè della causa da cui scaturiscono. Se Ivan Il'ič, nella parte finale della sua vita, avesse potuto, avrebbe certamente evitato di rimanere solo; si sarebbe volentieri confuso tra i colleghi di lavoro o tra le pile di documenti dalle pagine ingiallite, pur di riflettere su cose che non lo riguardassero. Ma non poteva. Non più. Perché non puoi svignartela quando ciò che ti fa male è il tuo corpo. Ed è per questo che il suo processo di catarsi arriverà fino in fondo. Ma chi era Ivan Il'ič? Dove viveva?

La Russia della seconda metà dell'Ottocento era la potenza europea più arretrata, anzitutto socialmente. Alla mancanza di istituzioni rappresentative si aggiungeva il fatto che su circa 60 milioni di abitanti, un terzo erano contadini, o servitù della gleba. Quest'ultima fu abolita formalmente solo nei primi mesi del 1861 attraverso una riforma dello zar Alessandro II. Riforma che non produsse affatto i risultati che voleva far credere si prefiggesse: i contadini, che fino ad allora erano di fatto proprietà del padrone e che venivano venduti insieme alla terra, potevano riscattare solo una parte del latifondo pagandolo - generalmente con costi elevati - allo stesso possessore. Lo stato delle classi povere non cambiò quasi in nulla. Dall'altra parte, l'aristocrazia terriera - specie quella di provincia - era lontana dal possedere lo spirito degli Junker prussiani e anzi tendeva più a somigliare all'Oblomov di Gončaròv. Per contro, era vivissimo l’impegno di descrizione senza edulcorazioni di questo scenario - e delle varie figure che si agitavano al suo interno - da parte di molti intellettuali russi, gli scritti e romanzi dei quali sono oggi i classici forse più letti.

Tolstoj scrisse "La morte di Ivan Il'ic" tra il 1884 e il 1886, cioè negli anni immediatamente successivi alla sua conversione al Cristianesimo. Il racconto però non si fa portatore di speranze escatologiche e non evoca alcuna visione metafisica. Il titolo stesso esplicita anzi la reale protagonista della storia, che non è la vita di Ivan, ma, appunto, la sua morte: bisognerà infatti aspettare che entri in scena la sua prospettiva, col suo terribile impatto, perché l’uomo si costringa a darsi un senso.

Ivan Il'ič, in giovane età, dà l'idea d'essere il contrario di suo padre, il "consigliere segreto Il'jà Golovin, membro inutile di varie istituzioni inutili". Il ragazzo è ambizioso e intelligente, e una volta uscito dall'istituto di giurisprudenza parte per la provincia per andare incontro al suo primo incarico: "funzionario con incarichi speciali presso il governatore". Quel posto glielo procura papà Golovin, ovviamente, ma da lì in poi il giovanotto non trova alcuna difficoltà a camminare con le sue gambe; a fine carriera arriverà a ricoprire il ruolo di consigliere di Corte d'Appello. Tuttavia, la sue aspirazioni non sono affatto scevre da influenze esterne: fin dai primi anni infatti "... si era manifestata in lui un'irresistibile attrazione, pari a quella della mosca per la luce, verso le persone più altolocate in società: aveva cercato di appropriarsi delle loro maniere e delle loro idee e di stringere con loro relazioni amichevoli". Durante gli anni dell'istituto compie alcune azioni per le quali prova una certa vergogna, subito mitigata dal constatare che quel modo di comportarsi è parte integrante dell'élite cui ambisce. Eppure Ivan non è un uomo cattivo, se non con se stesso. Lo inguaierà il suo strano istinto di attingere dalle cose altrui ciò che non cerca affatto nelle sue: "... eseguiva coscienziosamente tutto quello riteneva suo dovere; ed egli riteneva suo dovere tutto quello che era ritenuto tale dalle persone altolocate".
Da un trasferimento di lavoro all'altro, vive con leggerezza (al di fuori dell'ambito professionale, uno dei punti cardine della sua filosofia), gioca a carte - vincendo puntualmente - e nel suo nuovo incarico di giudice istruttore si compiace di mostrare tutto il potere che gli deriva da questa carica senza mai arrivare ad abusarne (ciò, si noti, in un regime poliziesco e repressivo come quello zarista, in cui i funzionari venivano quasi incitati a farsi prendere la mano). Conosce Praskov'ja Fëdorovna e la sposa. Per amore? Non proprio. Perché calcola che sia ben vista dalla cerchia di colleghi e conoscenti? Neanche questo si può dire. Per entrambe le ragioni, ecco, questo sì.
La problematica vita matrimoniale fornisce a Ivan il primo vero banco di prova, in cui affila maggiormente la sua abilità nel tener ben separata la sfera pubblica da quella privata. Ritiene che le assillanti lamentele della moglie non siano in realtà suffragate da seri motivi e, senza che il pensiero di ascoltare le ragioni altrui lo sfiori minimamente, si estrania e imbocca l'unica uscita di sicurezza disponibile: la carriera. Cosa spera di risolvere in questo modo?
"Questa alienazione familiare avrebbe potuto amareggiare Ivan Il'ič, se egli avesse ritenuto che così non doveva essere, ma a quel punto egli si era convinto che quella situazione non solamente era normale, ma era anche l'obiettivo a cui mirava il suo comportamento in famiglia". Da una parte, il grande risultato che Ivan crede di ottenere è quello d'essere riuscito a fa passare agli occhi di sua moglie l'alienazione non come un elemento disgregatore, ma come un regolare mezzo di equilibrio del loro rapporto. Dall'altro, naturalmente, ciò scatenava una serie di conseguenze che per questioni di comodo l'uomo non intuì o non volle intuire, ma che lasceranno i loro semi carichi di implicazioni. In questo trovato "equilibrio" Ivan arriva a trovarcisi talmente bene che la sua vita trascorre "... così come egli riteneva che dovesse trascorrere: in modo piacevole e decoroso".
Dopo alcune disavventure professionali risoltesi con un colpo di fortuna - e comunque non senza la determinazione che in questo ambito mai gli veniva meno – Ivan si ritrova a Pietroburgo con un ottimo posto nel suo vecchio ministero di grazie e giustizia e uno stipendio addirittura superiore alle sue aspettative: più di cinquemila rubli al mese. Compra allora un enorme appartamento, che arreda personalmente: "C'era tutto quello che escogitano le persone di un certo ceto per assomigliare a tutte le persone di quello stesso ceto. Da questo punto di vista la casa di Ivan Il'ič era assolutamente esemplare, indistinguibile; ma a lui tutto sembrava molto originale".
La legge del contrappasso è però dietro l'angolo. Un banale incidente casalingo scatena una malattia che diventa un cavallo di Troia nella mente di Ivan.
Egli viene risucchiato lentamente ma inesorabilmente in quelle sabbie mobili in cui da solo s'è andato a impantanare: sia con la famiglia che con i conoscenti - senza parlare di amici, ché non ne ha degni di questo nome – con tutti aveva sempre accuratamente eluso questioni così intime, e ora era come se quelli non accettassero che proprio lui, Ivan l’uomo dabbene, potesse avere dei problemi. Seri per di più. Il loro comportamento è in parte giustificato dal fatto che lo stesso Ivan inizialmente non riesce a concepirsi in quello stato, è un cattivo paziente, ha paura, smania, ma non segue fino in fondo le cure prescrittegli dai vari medici che lo visitano; seguita in generale ad agire come se non si appartenesse. Certo è che non può dividere la psiche dal corpo così come aveva fatto con l'ambito pubblico e quello privato. In questo senso l'infermità svolge per lui, paradossalmente, un'azione bifasica: degenerativa per il corpo, terapeutica per lo spirito. Una terapia sicuramente d'urto, che inchioda i suoi trascorsi nella posizione più scomoda: sotto un'impietosa lente d'ingrandimento. La sua.
Così, quell'uomo per cui il massimo divertimento era giocare a carte necessariamente per vincere e dare cene e ricevimenti dal pedissequo gusto formale; che scacciava dal suo destino il sillogismo di Kizevetter studiato sul manuale Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale; che aveva la boria di leggere la vita nel significato di tre semplici aggettivi: leggera, piacevole, decorosa. Quell'uomo, volge ora indietro lo sguardo, meravigliandosi di dover risalire fino alla sua infanzia per trovare momenti autenticamente piacevoli. Pensa alla moglie e alle implicazioni che aveva avuto quel muro che lui, per primo, aveva troppo frettolosamente eretto tra loro, e che era andato sempre più innalzando, fino a renderlo invalicabile.
Il racconto si apre col cinismo dei colleghi - e della moglie - nella sua camera ardente e si chiude con l'altruismo e la bontà di Gerasim, il giovane mužìk addetto alle cucine, colui che disinteressatamente gli regalerà gli ultimi momenti di sollievo. È vicino a Gerasim che Ivan non sente più il bisogno - forzato in questo dalla malattia - di comportarsi come tutta una vita ripeteva che ci dovesse comportare: comme il faut. Ammodo.

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