sabato 16 gennaio 2010

Rosarno, la battaglia delle schiavitù




Mia madre è calabrese. Mio padre lo era. Ne conosco molti di calabresi, e dalle loro parti il razzismo è ai minimi storici. ‘Ndrangheta compresa, che usa i neri per contenere i costi; se gli svedesi fossero più a buon mercato degli africani, sfrutterebbe tranquillamente quelli.
A Rosarno abbiamo assistito fondamentalmente ad una lotta tra schiavitù. Quella emigrata/importata dal terzo mondo contro quella residente del primo; così vicine, eppure così distanti. In comune, su questo suolo, hanno il nemico: la 'ndrangheta. A riguardo, in questi giorni, fiumi di inchiostro scorrono lo Stivale in lungo e in largo; ogni lettore trae le proprie conclusioni secondo coscienza, più o meno (raramente per nulla) contaminata da pregiudizi confezionati o di provenienza casereccia, e spesso in base alla posizione geografica rispetto al teatro dello sfruttamento di volta in volta nell'occhio del ciclone.

A prescindere dalla deriva razzista automaticamente incastonata dai media nazionali, che in sé è già la miliardesima sconfitta dell’informazione ufficiale, profonda delusione risiede nel constatare come le popolazioni del sud Italia (in questo caso calabresi; in generale la patologia è ben più estesa) difendano con le unghie e con i denti quell'incerta tranquillità, quella silenziosa inquietudine da notturna foresta selvaggia che viene concessa loro dalla malavita più che organizzata. Abbiamo una casa? Abusiva, non a norma sicurezza; ma sì, ce l'abbiamo. Abbiamo un lavoro? Mal retribuito, precario, soffocato dalla commistione diabolica partiti-mafia e dalla loro politica clientelare; eppure sì, un numero accettabile di noi lo ha. Abbiamo una macchina? Sì. Queste e poche altre cose, da amalgamare con vertigini cicliche da insicurezza economica, tengono a galla non già il sottoproletariato, ma una percentuale consistente del proletariato calabrese, campano, siciliano ecc.

Al contrario di questi, gli sventurati che giungono qui da ogni parte dell'Africa non posseggono nemmeno la pochezza di quegli abbagli o contentini di base, che sono sempre e comunque soggetti ad arbitraria riduzione. Molti di loro vedono qui per la prima volta gli oggetti che noi diamo per scontati. Eppure non li desiderano se non nella misura in cui gli possano permettere di distinguere una vita dignitosa da una miserrima, come quella che conducono. Subiscono lo sfruttamento vero, quello atavico delle piantagioni di cotone e tabacco della Virginia o della Georgia, sfiancandosi sui campi di pomodori o di arance (tranne lo scorso anno: pare che il mercato delle arance del sud abbia subito una dura battuta d’arresto), o privi delle più elementari misure di sicurezza nei cantieri abusivi della periferia di Napoli, quartiere Pianura, sorta senza alcun piano regolatore. Con buona pace di chi si meraviglia o piange se poi accadono disgrazie.

Tutto il giorno all’aperto, quindi, in balia di un clima spesso impietoso, a subire l’umiliazione delle sferzate dell’accolito malavitoso di turno per venti ristrettissimi euro; poi, mentre si ritorna più spenti di cadaveri a cercare di riposare ammassati l’uno sull’altro in una fetida fabbrica in disuso, qualche simpatico nullafacente annoiato ti spara con un fucile a pallini.

Questi uomini ci hanno mostrato a quale livello di miseria, fame e disperazione è necessario scendere prima di ribellarsi sul serio. Una ribellione disordinata, cieca, senza un leader se non la somma delle furie individuali. Una rivolta in cui la violenza è incontrollabile e direttamente proporzionale al degrado fisico e morale subito.

Per la verità, quasi tutti i mezzi d'informazione hanno almeno gettato la maschera dell’ipocrisia affermando che tale sfruttamento era sempre stato sotto gli occhi di tutti, anche dei più fintamente distratti (cioè noi). Ma andava bene così, “ci preoccupiamo soltanto di vivere al sicuro, ai margini di questo esercito provvisorio. Così difendiamo noi stessi ed i nostri pollai, e manteniamo la schiavitù”, per dirla col Thoreau di Disobbedienza civile (1849).

Allargando l’orizzonte dalle regioni del nostro meridione alla società globalizzata, sono d’accordo con le tesi che ci vedono stipati in un limbo: attaccati da tempo a una macchina artificiale che si preoccupa di alimentarci di una libertà, anche materiale, più o meno limitata. Pochi però si accostano a un’etica per comprendere tale libertà alla luce dai valori fondamentali per la convivenza. Abbiamo sempre più input per concepire la vita senza l'aiuto delle persone che ci stanno intorno, e ciò ci aliena dalle problematiche esterne.




P.s. Siamo peggiorati nelle statistiche storiche. Un tempo, rivolte e rivoluzioni dovevano farle gli altri per noi. Poi gli andavamo dietro. Oggi siamo così assuefatti che non solo non riconosciamo una rivolta per giusta causa, ma sediamo coloro che si ribellano per la nostra stessa.

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