mercoledì 10 marzo 2010

Perdersi e ritornare, utilità ispirative




"Nelle nostre passeggiate più banali, stiamo sempre virando, seppur inconsciamente, come piloti diretti da certi fari e da certi promontori (...) Dovremmo guardare più spesso oltre la ringhiera di poppa della nostra nave, come passeggeri curiosi, e non fare il viaggio come stupidi marinai, intenti a preparare la stoppa" (H.D.Thoreau, Walden).

In questa parte di mondo è praticamente impossibile perdersi; non agli occhi degli altri, ma a beneficio di se stessi. Ogni tragitto che faccio è programmato. Non mi sono mai perso davvero in un posto, per questo sono convinto di aver fatto sempre a meno di qualcosa.

Perdere la cognizione del luogo in cui ci si trova e in abbinamento, possibilmente, del tempo. E farlo senza provare inquietudine; ma come trattenersi dal chiedere aiuto a qualcuno? Ricorda molto quel bambino alle sue prime timide esperienze in piscina: se ne resta incollato al bordo. Tolte quelle volte in cui lo si fa per necessità, perché quando ci si sposta sembra sempre logico avere una destinazione?

Le antiche popolazioni nomadi non si riconoscevano in una sola terra, ma nella totalità di essa; si spostavano solitamente per motivi economici, o di tradizione. La loro conoscenza era superiore a livello pratico rispetto a quella di un qualsiasi popolo stanziale, così come la loro capacità di adattamento, soprattutto climatico. Nomade viene dal greco nèmo (o nèmos), che significa "io pascolo"; in tal senso il concetto di perdersi per loro era abbastanza relativo. Al contrario, la nostra plurisecolare cultura stanziale ci fornisce un banco di prova ideale per sentire pienamente quella destabilizzazione del trovarsi in un luogo estraneo alle proprie abitudini visive. Destabilizzazione, se possibile, nella sua più utile accezione: come shock e graduale visione di nuove potenzialità e stimoli che scaturiscono dal cambiamento di contesto.

Come se giocassimo a provocarci: negando al cervello ogni riferimento topografico (contestualmente a tutte quelle immagini associative di cui necessita) e domandone via via ogni vertigine conseguente, lo si induce ad abbandonare le inutili inibizioni e le alienanti certezze legate all'ambiente precedentemente memorizzato. E a concedersi quindi nuove ispirazioni. Decontestualizzarsi. Un po' come faceva Magritte con gli oggetti, per far acquisire loro tutt'altro senso; un senso inaspettato, sorprendente. Per non avere un'idea prevedibile, standardizzata, o peggio limitata di ciò che la nostra esistenza può partorire.

Il ritorno, però, è una componente imprescindibile del gioco: è nel luogo (non necessariamente reale) che identifichiamo come intriso della nostra essenza che le esperienze si preparano a essere assimilate dall'anima, assumendo valore permanente. Solo dopo potranno contribuire direttamente al processo di elaborazione creativa o poiesi.

Perciò, perdersi, per un artista, è intraprendere un viaggio stimolante, ingannando, tenendoli bene aperti, i propri occhi. Per poi ritornare con il prezioso carico di impressioni e fantasie a casa. Qualsiasi cosa per essa s'intenda.

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