sabato 20 marzo 2010

La (mia) superficialità


Se c'è una guerra che vale la pena di intraprendere, l'unica che non necessiti di cifre esorbitanti, è quella contro una parte di noi. Fosse anche per il resto della permanenza sulla Terra. Quella parte che sempre ci ha creato problemi.
Una guerra bifase: individuazione e tentativo di cura.

Individuazione: questo leviatano interiore è più ambiguo della tuta disindividuante di Philip Dick. Bisogna mettere realmente le mani nella (propria) merda per discernere vizi, carenze, difetti, lacune minori e provvisorie, da quelle più radicate. E puntarne uno/a, possibilmente quella/o più atavica/o e puzzolente. Credo di aver fatto questo tipo di lavoro, riuscendo a pescare il prodotto della mia mente per il quale provo un indomito ribrezzo: la superficialità. Ho imparato a riconoscerne le pulsioni deleterie attraverso alcune sue peculiarità, che cerco di eliminare con dei Qassam: pregiudizio, stereotipo e accettazione. Ogni volta che cammino e metto il piede su una di queste tre mine maledette mi sento saltare in mille pezzi, proprio come capitò a Robert Capa. E la paura di questa terribile sensazione è il solo anticorpo che la mia mente sia riuscita a creare contro una parte di sé. Come in ogni guerra, però, ci sono momenti, periodi, in cui ti sembra di regredire. E altri in cui regredisci realmente. Allora devi mettere di nuovo le mani nella (tua) merda e vedere fino a che punto sei tornato indietro. Pulire, e da lì ricominciare.

Tentare la cura. Per quanto mi riguarda, il solo antidoto che a tastoni nell'oscurità sono riuscito ad afferrare è sviluppare la curiosità, la voglia di approfondire in ogni direzione possibile e senza forzature. Sono fortunato in questo, poiché credo di aver imparato ad alimentare il mio interesse nelle cose: a volte vorrei creare così tanto da finire a pensare che l'arco di una giornata non valga nemmeno come antipasto. Ciò mi riesce in modo molto più efficace quando sono solo; ho moltissime difficoltà a tener domo quel mio odiato generalizzare quando sono in mezzo agli altri. Di questi, ho notato, colgo subito il grado di superficialità e, se elevato, invece di dar subito battaglia, addiziono la mia alla loro. Regredendo inesorabilmente.

Ad ogni modo, ho avuto la mia personale Austerlitz nel comprendere che la vera cura, se c'è, è imparare. Con modestia. Necessariamente sbagliando. E da qui creare. Do ut des. Immagazzinare, personalizzare e riproporre.
Per allontanare il puzzo vomitevole di questa cazzo di superficialità.

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