martedì 19 aprile 2011

L'Aquila. Impressioni a due anni dal sisma


Sono partito con l'idea che bisognava vedere l'Aquila così com'è ridotta ora. Torno con la convinzione che sia necessario sottoporsi a un tale shock visivo per tentare di comprendere la tragedia che, poco più di due anni fa, fece l'infelice scelta di questo teatro per andare in scena, lasciando in eredità la sua desolante scenografia. La maggior parte delle strade - grazie al lavoro di forze dell'ordine, volontari e cittadini - è ormai libera da detriti e calcinacci e quindi percorribile, fatta eccezione naturalmente per la zona rossa, che presenta inquietanti analogie con lo scenario post-atomico di Pripjat', nell'ex Urss.

La vista degli edifici del tutto o in parte danneggiati smuove quella compassione che per le sole creature viventi è possibile provare: è come aggirarsi in un'area sconfinata adibita a nosocomio, in cui giacciono pachidermi sofferenti, esanimi. Sulla pelle dei quali in quella notte di primavera si aprirono profondi squarci e ferite che ancora non cicatrizzano, mentre il loro sangue sgorgava intasando le vie e trascinando nell'abisso l'immagine della vecchia città, le persone e le loro storie e i ricordi belli o brutti indifferentemente; la loro vita normale, quotidiana, quella che a volte alternava il sapore acidulo della banalità all'odore asettico della noia, e altre appariva invece come una sequenza di piacevoli istanti che di nascosto si susseguono, distogliendo l'attenzione dall'orologio. Che gira sempre e comunque nello stesso senso.
Dei palazzi voglio scrivere, perché solo la loro presenza deforme definisce ora i viottoli e le strade maestre che si diramano da Piazza del Duomo. E di quelle palazzine che cercano disperatamente di non cadere a terra, come un pugile dal volto tumefatto e i fianchi indolenziti che non cede fino all'ultimo round; così romantiche nel loro sforzo che pretendono di poter ignorare la terribile verità: non hanno più un' anima. L'unica cosa che dava loro senso. Chi avrà il coraggio di spiegargli che ormai non accolgono più nessuno?

E poi sostegni. L'Aquila è una distesa di sostegni: travi di legno e assi di metallo la puntellano, tenendola assieme. È come camminare dentro la bocca del tuo amico delle elementari, quello con l'apparecchio per i denti. 
Quasi per uno scherzo del destino, proprio gli edifici costruiti nell'era che ho sempre creduto la più deleteria per l'Italia e l'Europa, quella fascista, sono esternamente i meno danneggiati. A quel tempo doveva alloggiare nella mente delle persone una singolare forza volitiva, lo si capisce dalla maniera solenne e - è proprio il caso di dire - razionale di edificare, così solida da trascendere le proprie origini e opporre alla violenza del sisma una strenua Resistenza.


Tutto questo spazio, costruito da uomini e a questi tolto da forze maggiori, è adesso un gigantesco fermo immagine. Dietro ogni facciata mancante si rivela l'intimità stuprata di gente che fu e individui che ora sono - profondamente diversi - in qualche altro posto. È la Spoon River di Edgar Lee Masters, in cui entri facendoti domande ed esci più maturo perché non puoi trovare risposte.













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