lunedì 30 maggio 2011

Gramsci: il Risorgimento tra moderati e radicali


Per quel che riguarda il processo risorgimentale, nei suoi Quaderni dal carcere, Gramsci pone spesso un confronto tra moderati (cattolici come Gioberti prima e liberali come Cavour poco più tardi) e radicali, nella fattispecie del Partito d'Azione (fondato da Mazzini a Ginevra nel 1853), e più specificamente su chi tra questi due abbia avuto una più ampia visione dello svolgersi degli eventi e del proprio ruolo all'interno di essi. Da ciò, la maggiore o minore capacità d'influenzarli o di "guidarli". Non vi sono dubbi, secondo Gramsci, sul fatto che la migliore organizzazione e il più efficace senso pratico abbiano finito per far pendere l'ago della bilancia dalla parte dei moderati cavourriani.

Tra questi due blocchi le differenze strutturali politico-militari erano significative; Gramsci scrive: "Perché il Partito d'Azione fosse diventato una forza autonoma e fosse riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico, avrebbe dovuto contrapporre all'attività «empirica» dei moderati un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo luogo dei contadini...". Inoltre: "Occorre ricordare che ai moderati appartenevano le maggiori personalità della cultura, mentre la sinistra non brillava (salvo poche eccezioni) per troppa serietà intellettuale, specialmente nel campo degli studi storici e della pubblicistica di medio grado (...) Il regime degli archivi pubblici era favorevole ai moderati, ai quali era permesso individualmente fare ricerche di documenti contro i loro avversari politici e mutilare, o tacere, dei documenti che sarebbero stati sfavorevoli ai loro; solo da pochi anni è stato possibile pubblicare epistolari completi, per esempio di moderati toscani, che ancora nel 1859 si aggrappavano alle falde del granduca per non farlo scappare (...) In realtà il Partito d'Azione non seppe contrapporre nulla di efficace a questa propaganda, che attraverso le scuole, divenne insegnamento ufficiale". Tali e altre diversità - riassumibili per Cavour nella sua capacità di elaborazione di una Realpolitik - permisero ai liberal-moderati di dipingere presto il ruolo del Partito d'Azione come assolutamente subordinato alle loro iniziative.

Per Gramsci perfino le tesi neoguelfe dell'abate Gioberti, fino al 1848, riuscirono ad avere più presa sia sugli intellettuali che, in maniera significativa per il tempo, sulla popolazione: "Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l'Italia almeno allo stesso livello delle nazioni più progredite...". Tra le convinzioni del neoguelfismo - affermatosi attorno all'inizio degli anni '40 dell'Ottocento - vi era sì l'urgenza di riforme amministrative e politiche, ma da ottenere senza passare necessariamente per la via dell'unificazione politica della penisola, obiettivo che, da queste stesse tesi, veniva peraltro giudicato irrealizzabile. Come puntualizza B. Croce sulla sua Storia d'Europa nel secolo decimonono a proposito dei cattolici-moderati: "La loro moderazione era senno politico, al quale appariva campata in aria l'idea della Repubblica italiana, e quella stessa dell'unità statale di tutta la nazione, fantastici gli appelli al fantastico popolo che dai campi e dalle officine si sarebbe levato a scacciare con armi improvvisate lo straniero e i despoti indigeni...". Gioberti arrivò al massimo a teorizzare una Confederazione di Stati italiani con a capo il papa, che si affidasse alle forze militari piemontesi; ipotesi, questa, non meno irrealizzabile, visto il diffuso anticlericalismo liberale e il conclamato antiliberalismo della chiesa cattolica. Del resto, se tali contenuti del neoguelfismo trovarono - per i motivi citati e per diversi altri - un rilevante consenso, se ne deduce che almeno fino alla metà del XIX sec. non vi era all'interno dei sette stati preunitari una netta propensione all'unificazione statale.
Quest'ultima fu invece perseguita da Mazzini praticamente dall'inizio, e doveva nei suoi pensieri concretarsi in una Repubblica unitaria (unità nazionale, indipendenza, repubblica: fini politici della Giovine Italia), senza alcun compromesso con le monarchie. Secondo Gramsci, ciò che nel politico genovese era e rimase vago - o inefficace - non era quindi il fine, ma il mezzo, ossia l'insurrezione di popolo senza eccezione di classe. Non solo: egli era persuaso che la ribellione avrebbe trovato terreno fertile con più facilità nel Mezzogiorno; sempre dai Quaderni di Gramsci: "Studiare le origini e le cause della convinzione che esiste in Mazzini che l'insurrezione nazionale dovesse cominciare o fosse più facile da far incominciare nell'Italia meridionale (...) Pare che tale convincimento fosse pure nel Pisacane...". In tutto ciò bisogna tenere presente un dato fondamentale come l'analfabetismo: ancora nel 1871 era alfabetizzato il 16% del Sud, il 25% del Centro e meno del 50% del Nord (Beales-Biagini, Il Risorgimento e l'unificazione dell'Italia)

Con l'introduzione del termine nazione, è bene specificare il "deterioramento" concettuale che intercorre tra il nazionalismo risorgimentale (o patriottismo) e l'accezione "novecentesca" di nazionalismo: "Per lui (Mazzini, ndr) il nazionalismo fu generalmente cosmopolita, nel senso che l'amore del proprio paese non escluse, anzi richiese, il sostegno a sentimenti analoghi di altre nazionalità oppresse. Ciò lo distingue dal significato, del tutto diverso, che esso assunse in Italia tra Ottocento e Novecento" (Beales-Biagini, ibidem). "Il paradosso del nazionalismo era che, nel costruire la propria nazione, esso creava automaticamente il contronazionalismo di coloro ai quali imponeva la scelta fra assimilazione e inferiorità". Tale definizione - che si addice più al suo secondo significato di nazionalismo, quello disgregatore del secolo scorso - è di Eric J. E. Hobsbawm (ne Il trionfo della borghesia 1848-1875); essa evidenzia una snaturazione nel tempo del concetto risorgimentale di patria: dalla riappropriazione della terra dei propri padri, all'occupazione militare del suolo natio altrui.

Tornando infine alle tesi gramsciane su moderati e radicali, Beales e Biagini scrivono: "Nella seconda metà del XX secolo, il marxismo esercitò una profonda influenza sulla storiografia italiana del Risorgimento, in larga misura attraverso le opere di Antonio Gramsci (...) Egli era convinto che all'epoca dell'unificazione i moderati fossero riusciti a negare ai radicali un'equa condivisione dei frutti del successo a cui entrambi i partiti avevano contribuito. Gramsci sottolineò particolarmente il ruolo della masse contadine nella storia italiana del XIX sec. e descrisse il Risorgimento in quella che è diventata una frase famosa, come una rivoluzione agraria mancata; ma combatté un idealismo con un altro" (ibidem). Ciò è naturalmente condivisibile. Eppure, come ricorda Lorenzo Del Boca: "Antonio Gramsci era cresciuto ad Ales, in Sardegna, ma la sua famiglia era meridionale: il padre, Giuseppe, era nato a Gaeta nel 1860, proprio durante l'assedio, e il nonno, Gennaro (...) era stato capitano della gendarmeria borbonica"(Maledetti Savoia); il filosofo e politico sardo godeva quindi già all'origine della sua formazione di una "fonte diretta" per la conoscenza di tali problematiche. La mia modesta opinione è che il merito di Gramsci risieda nell'aver provocato nei posteri la ricerca di una più obiettiva lettura dell'escalation unitaria italiana, spogliandola, per la prima volta, di quell'insopportabile veste d'ipocrita sacralità con cui la storiografia - dagli ultimi decenni del XIX secolo fino alla metà del XX - l'aveva agghindata.





Altre fonti: Sabbatucci-Vidotto, Storia contemporanea, l'Ottocento

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