venerdì 19 febbraio 2010

"Tra le nuvole" e dintorni



Ho visto questo film l'altra sera. Non vincerà nessun Oscar e non rappresenta uno spartiacque nella storia della celluloide; gli attori che vi partecipano non hanno brillato per espressività e non sembrano essersi sbattuti più di tanto col metodo Stanislavskij; la trama si snoda in effetti senza particolari colpi di scena (forse ce n'è uno), e i tempi sono spesso lenti. Tutto ciò rappresenta un'ottima base per produrre una cantonata di film. Oppure per riprodurre la realtà, nuda e cruda. E "Tra le nuvole" coplisce in tal senso; il suo obiettivo è far riflettere senza tanti fronzoli su una verità del nostro tempo: la crisi. Economica e umana.
Se quella economica è narrata dal punto di vista dell'azienda che si trova a dover tagliare il personale, quella umana è vissuta in prima persona dal protagonista, un Clooney decaffeinato ma ispirato.

Egli è il terminale della politica dei tagli operati dai manager di un'azienda, un addetto al congedo di un numero sempre maggiore di dipendenti in varie filiali sparse sul suolo statunitense, e in questa arte sembra inizialmente vantarsi d'aver raggiunto una certa abilità; non ha residenza, vive sugli aerei in cui viaggia e negli hotel pagati con le innumerevoli carte di credito che la sua posizione privilegiata gli permette. Tutto ciò che gli serve giace nella capienza di un trolley. Sentimenti e vita sociale compresi.

L'estremo cinismo e la vomitevole ipocrisia con le quali le grosse aziende presentano indistintamente il benservito a chi per anni  ha dedicato loro la propria opera - arrivando paradossalmente a vendere il licenziamento (profumandolo ed impacchettandolo come una qualsiasi merce) al licenziato - rendono bene l'idea della lontananza estrema che intercorre tra esigenze di mercato e realtà umana.
Ma ogni dramma globale è prima di tutto un diffuso malessere individuale; Ryan/Clooney pensa bene di coniugare vita e lavoro, sebbene quest'ultimo sia costellato di continui spostamenti. Evita ogni coinvolgimento con altre persone che vada oltre la fugacità e, nel caso femminile, della botta e via, arrivando a crederci così tanto da filosofeggiare sui benefici del suo stile di vita inteso come vera e propria impostazione di pensiero, per elevare infine lo stendardo della sua libertà assoluta sulle povere teste di coloro che, invece, cercano ancora stupidamente tranquillità e appagamento in un rapporto stabile.

Simili principi, caratteristici della nostra realtà, sono il risultato di un adattamento; sono stati cioè indotti dallo sconfinamento della cultura economica neoliberista nei rapporti sociali, contaminazione, questa, deleteria per la crescita spirituale dell'individuo. È come se la logica del profitto contagiasse ormai la sfera dei rapporti interpersonali e, non ultima, una certa idea dell'amore. Del resto, non è forse il relativismo la chiave di lettura del nostro tempo? Non è forse sulla fruizione di piaceri frivoli e bisogni preconfezionati che le aziende insistono, attraverso molteplici mezzi divulgativi? Non esiste forse un latente messaggio che esorta a coltivare e rinforzare uno spesso strato di egoismo e che spinge a provare sfiducia preventiva in ogni rapporto anche solo percepito come limitante per la propria libertà? Questi cortocircuiti, nella vita pratica, inducono proditoriamente a credere che il gioco non valga la candela, ossia che tentare un atto di fiducia nei confronti di un'altra persona sia tendenzialmente sbagliato più che tendenzialmente giusto. Per questo, i termini in cui ragiona Ryan/Clooney sono tanto comprensibili quanto attualissimi. E innegabilmente indotti, non spontanei. Per tornare a bomba, la lentezza latente del film non è solo giustificata, ma azzeccatissima, perché richiama direttamente l'alienazione dei soggetti che intende descrivere. 
Kant asseriva che ognuno sente naturalmente il bene e il male. Ed è forse per questo che, alla fine, le unioni, siano esse ufficiali o di fatto, anche in diminuzione, sono ancora largamente diffuse.

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